RACCONTI


TUTTE  LE  MATTINE  DALLA  TERRAZZA  (new)



Da diversi anni Sergio Ciani aveva l’abitudine di prendere in affitto sempre lo stesso appartamento in riva al mare a El Palo, una località balneare distante solo pochi chilometri da Malaga. Quel luogo tanto lontano dalla sua terra natia, la bella Firenze, l’aveva scelto nella speranza che la diversità del nuovo ambiente e la solitudine, potessero dare un nuovo slancio alla sua vena di scrittore che da tempo languiva.    
Il monolocale, arredato con ogni confort, era provvisto di una terrazza che affacciava direttamente sullo specchio di mare antistante la baia di Malaga. Da quella terrazza tutte le mattine Sergio assisteva con una certa trepidazione, all’arrivo delle prime tremolanti luci dell’alba, destinate a sostituire le altre, quelle della notte stellata. Una visione incantevole, dalla quale traeva gioia e vigore per immergersi poi nel tran-tran della vita quotidiana. La sera invece era il tramonto a coinvolgerlo con i suoi caldi e sensuali colori, ad appagare finalmente le sue esigenze interiori. L’appartamento rispondeva perfettamente alle sue necessità e sin dal primo istante se ne innamorò, al punto da fantasticare di poterne diventare un giorno proprietario. In effetti, lo riteneva  sufficientemente grande per accogliere anche la moglie Marzia, benché a gioire di quelle meraviglie fosse solo lui, poiché la moglie detestava viaggiare. Marzia preferiva non allontanarsi dalla sua residenza di campagna in toscana, dimora che da generazioni la nobile e antica famiglia dei Piccolomini si tramandava. Sergio invece, era sempre stato un irriducibile viaggiatore, e quando per la prima volta decise d’intraprendere il viaggio verso la Spagna, si era ormai a fine ottobre. Prima di lasciare la Toscana, lo scrittore aveva vissuto un autunno disastroso per l’inclemenza del tempo. Durante tutto il mese la pioggia si era accanita con particolare violenza sulla regione, sferzate di vento gelido avevano spogliato anzitempo gli alberi in tutto il circondario, provocando allagamenti e smottamenti di terreno. Quell’anno l’inverno sembrava giunto in anticipo sul calendario delle stagioni e di conseguenza l’umore di Sergio era costantemente sotto pressione, mai sceso tanto in basso come in quei giorni. Lasciarsi alle spalle quell’insopportabile clima per andare all’avventura in un paese del tutto sconosciuto, del quale aveva sentito vantare bellezza e ospitalità, fu per lui un vero sollievo. 
Con la sua fiammeggiante porche decappottabile, si diresse verso il sud della Spagna in Andalucia, alla ricerca di luce e di sole, convinto che il tiepido clima l’avrebbe aiutato a risalire la china dell’apatia. 
Il primo impatto avvenne con l’antica città di Malaga, città che per ben sette secoli era stata dominata dagli arabi, e ne rimase entusiasta. Ebbe la percezione che la città si trovasse nel periodo più rigoglioso della stagione, sebbene fossero gli ultimi giorni di ottobre. Giardini ricolmi di fiori multicolori, perfettamente disposti nei verdi prati, emanavano un gradevole profumo che si mescolava al  contatto dell’aria salmastra che giungeva dal mare. Giganteschi alberi di magnolie e lecci ombreggiavano i parchi pubblici, mentre dai balconi delle case in stile moresco, l’esuberante flora rendeva appieno la bellezza dell’architettura andalusa. A completare la magnificenza di quel paesaggio, un cielo limpido e terso s’accompagnava ad una temperatura estremamente piacevole. Questa visione tanto accattivante, ebbe facile gioco sull’animo sensibile dello scrittore, che ne subì l’immediato fascino.
Del brutto autunno toscano non era rimasta la minima traccia, un oscuro sogno svanito nel nulla.
Dopo l’esperienza del primo anno a Malaga, altri soggiorni seguirono nel corso degli anni successivi, i quali coincidevano sempre con la partenza degli ultimi villeggianti, gli amanti del grande caldo estivo e della confusione serale. Sergio, che non apparteneva a questa categoria di persone, a Malaga  ritornava sempre verso i primi d’ottobre, quando la temperatura era più congeniale alle sue esigenze, o quanto meno accettabile. Dopo tante estati trascorse a El Palo si considerava uno di casa, grazie anche all’amicizia di cui gli amici spagnoli del suo “barrio” (quartiere) l’onoravano.
Gli amici davano ormai per scontato che ad ottobre l’abituale monolocale che Sergio prendeva in affitto, dovesse essere libero e pronto per “el hombre italiano,” e di ciò andava orgoglioso. Per onestà, lo scrittore ammetteva che tanta amicizia gli era costata ben poca fatica, poiché da subito era stato accettato senza alcuna riserva. Ciò, grazie al fatto che le persone che abitualmente frequentava, nutrivano molta simpatia verso l’Italia e gli italiani, in particolare per la musicalità della lingua. Gli sembrava incredibile constatare che ci fosse chi, al primo approccio con uno sconosciuto, e per giunta straniero, gli accordasse tanta stima e fiducia. Che lo facessero per intuito o per il piacere di allargare il cerchio delle loro amicizie, non l’aveva mai capito, e neppure gli  interessava saperlo.  
I primi giorni del suo arrivo a El Palo erano i più impegnativi, li trascorreva tra saluti, calorosi abbracci e strette di mano, ed allora si creava una discreta confusione perché tutti insieme volevano metterlo al corrente delle novità più recenti. Novità che riguardavano soprattutto gli inquilini stranieri suoi predecessori, ormai rientrati nei rispettivi paesi i quali, a detta di tutti, si erano dimostrati riservati e poco loquaci, e perciò per niente simpatici. Ovviamente non si era mai trattato di turisti italiani, che per carattere sono espansivi e ciarlieri come i nativi. Le altre notizie che seguivano invece, erano riservate alle persone definitivamente scomparse, che per tutti lui doveva certamente ricordare.
                                             
                                                             II                                                


Il primo anno che Sergio soggiornò a El Palo, la scelta della dimora era caduta su quel monolocale non solo perché accogliente, ma per l’ampia terrazza tutta proiettata in avanti, a pochi metri dalla spiaggia, dalla quale godeva di una superba veduta sul golfo, e allo stesso tempo aveva modo di controllare gran parte della passeggiata sul lungomare, il famoso “Paseo Maritimo.” (Passeggiata Lungomare) Da quella posizione strategica, Sergio si sentiva un poco spettatore e un poco giudice degli avvenimenti che vedeva scorrere sotto i suoi occhi, nell’arco delle ventiquattro ore. La passeggiata si snoda per un lunghissimo tratto sul lungomare ed è una vera e propria istituzione sociale, dove la gente quotidianamente pratica sport, s’incontra, discute animatamente di argomenti tra i più disparati, facendo all’occorrenza affari puliti e non, specialmente dopo il tramonto. 
Il Paseo è sempre frequentato sia di giorno che di notte, e per questo dà l’impressione che lungo quel percorso la vita non cessi mai di respirare. 
Quando il turismo a El Palo era agli albori, le case che affacciavano sul Paseo, erano le abitazioni povere delle famiglie dei  pescatori. Con l’incremento del turismo, molte di quelle case hanno dato luogo alla nascita dei noti “Chiringuitos,” ovverosia trattorie con cucina a base di pesce, diventando successivamente dei veri e propri ristoranti. Così il primitivo, striminzito menu dei pescatori ha dato origine a pietanze più ricche e variate, pur conservando prevalentemente le specialità  del “pescado y marisco,” ovvero di pesce e frutti di mare.   
I vicini di casa più prossimi di Sergio erano due anziane sorelle, Donna Olimpia e Donna Maria, quest’ultima da diversi anni vedova, mentre Olimpia, delusa per un grande amore in giovane età, tristemente finito, aveva fatta la scelta di restare nubile. Le sorelle allora avevano deciso di convivere nel piccolo appartamento di proprietà di Olimpia, all’ombra di due enormi costruzioni, dove i raggi del sole dopo una breve escursione allo zenit, rapidamente scivolavano via. 
 Ma non era solo per l’età che le due donne si distinguevano, bensì anche per l’accuratezza della propria immagine esteriore.
In questo l’ottantenne Olimpia era molto oculata. Aveva un folta capigliatura tinta di un intenso colore nero corvino, che contrastava con una striscia chiara nel mezzo del capo, lì dove la tintura non aveva fatto presa. Le labbra esageratamente dipinte di rosso carminio, lasciavano ad intendere come le sue mani fossero state colpite dal  morbo di Parkinson, mentre le sopracciglia, sottili e allungate, riprendevano la tonalità stessa dei capelli. Il viso pallido e gonfio, mostrava a mala pena qualche ruga. L’abbigliamento di Donna Olimpia era di foggia semplice e fantasioso nella colorazione, il suo preferito era quello scuro con disegni floreali a forti tinte, che alternava con un altro a disegni geometrici, e poiché i vestiti erano di qualche misura più stretti della sua taglia, la rotondità del corpo era messa in seria evidenza. Ma a questo Olimpia non ci badava. Ogni mattina quando usciva dal piccolo appartamento, Sergio la vedeva trascinare l’abituale sedia impagliata, che sistemava sul marciapiede davanti casa in attesa dei primi raggi del sole, e quando finalmente trovava la giusta collocazione, iniziava il soliloquio di sempre. Soliloquio che veniva immancabilmente interrotto da qualche familiare o conoscente di passaggio, venuto a salutare e ad informarsi del suo stato di salute. Lentamente poi i passanti aumentavano di numero, formando un capannello intorno ad Olimpia che scompariva alla vista. Allora il brusio di voci iniziale si ampliava, diventando a lungo andare fastidioso ed insopportabile, durante il riposo pomeridiano. 
A Sergio riusciva difficile capire la ragione del vociare delle donne, visto che erano tutte strette l’una vicino all’altra, in seguito l’informarono che Olimpia era dura d’udito, e così l’equivoco fu chiarito. Quando le persone decidevano di  congedarsi da Olimpia, lei continuava a borbottare da sola sottovoce sino all’arrivo di un nuovo passante, che formulava le stesse domande di sempre: 
- Come stai Olimpia? Hai dormito bene? Ti hanno lasciata tutta sola oggi, e tua sorella dove sta? E così di seguito per un’altra mezz’ora.    
La sorella di Olimpia, Donna Maria, era esattamente l’opposto. La sua toilette mattutina consisteva nel semplice atto di lavarsi, pettinarsi e indossare il sobrio vestitino di sempre, per iniziare poi a disbrigare le faccende domestiche, perché era lei che si occupava di tutto. Donna Maria aveva due meravigliosi occhi di colore azzurro intenso, che conferivano al suo viso una dolce espressione di bontà, che Sergio ebbe modo di constatare successivamente in diverse occasioni. 


                                                              III     

 Sin dal primo periodo che lo scrittore occupò il monolocale, tutte le mattine di buon’ora aveva l’abitudine di sedersi in terrazza a sorseggiare la sua tazzina di caffé bollente, in attesa del sorgere del sole che dava il via alla lenta ripresa della vita quotidiana, e immancabilmente ogni mattina vedeva sempre la stessa donna arrancare a fatica sulla spiaggia. Era Antonia, la figlia della signora dai bellissimi occhi azzurri Maria, che eseguiva quel rituale su consiglio del suo medico, nel vano tentativo di porre fine al crescente peso corporeo. La donna, poco più alta di un metro e cinquanta, superava abbondantemente gli ottanta chili, che per sua disgrazia sembravano localizzati tutti nello stesso punto, il fondo schiena. Chiunque si fosse trovato alle sue spalle mentre camminava, avrebbe avuto l’impressione di vedere muovere il posteriore di un ippopotamo, in netto contrasto con un viso sottile dalla carnagione chiara e liscia, malgrado avesse superato i cinquanta anni. Antonia si accaniva a camminare sulla battigia, nel punto preciso in cui il mare lambiva la sabbia, di modo che nel percorso di andata si bagnava il piede destro, al ritorno invece il pediluvio toccava al sinistro, sostenendo con ferrea convinzione che questa pratica alternata, era efficace per la circolazione del sangue nelle gambe, e della salute in generale. Era evidente che si riferisse soprattutto al suo peso ma, nonostante da anni praticasse quel rituale, mattina e sera per ore intere, Sergio non ebbe mai modo di riscontrare in lei alcun cambiamento. Di questo era più che certo, poiché durante quelle passeggiate “terapeutiche,” Antonia indossava sempre lo stesso vestitino attillato che dava l’impressione le stesse incollato addosso, con il risultato che le sue movenze risultavano più appariscenti. 
A volte, di proposito, lui si faceva trovare lungo strada durante quel percorso, giusto per scambiare qualche parola o farle un complimento celato che sapeva gradiva dall’americano. L’americano era il soprannome improprio che proprio lei gli aveva affibbiato, per il semplice motivo che spesso Sergio indossava pantaloncini da spiaggia di un intenso colore giallo. La prima volta che glielo sentì dire, rimase sorpreso e si affrettò a ricordarle la sua nazionalità d’italiano.
- Lo so americano! rispose Antonia con una grassa risata, continuando a parlare nel suo velocissimo dialetto malaghegno estremamente difficile da seguire.
Anche se non lo sei, lo sembri, visto che te ne vai in giro con un pantaloncino buffo come quello. Sei ridicolo alla tua età! non ti si addice affatto, e poi ti sta male.
- Ho capito Antonia! Il colore giallo non ti piace, da domani per farti piacere ne indosserò uno diverso, magari rosso come il sangue che scorre nelle vostre arene. Ok, conclusi.
- Ecco vedi, sei in Spagna eppure hai risposto come un americano, OK. Quando la perderai quest’abitudine?
Quella piccola grassa donnetta era l’anima viva del Paseo, e poiché conosceva vita, morte e miracoli di tutti quelli che ci vivevano, Sergio comprese che gli sarebbe stata molto utile.  
Difatti, Antonia si preoccupò d’informarlo subito di certi avvenimenti spiacevoli che di frequente accadevano nel quartiere. Fatti che lui mai avrebbe supposto, certo di abitare in un luogo tranquillo, tra brava gente, dove chiunque poteva aggirarsi indisturbato in qualsiasi ora del giorno e della notte.  
- Se ti tengo al corrente di certi avvenimenti, gli disse Antonia, è per metterti in guardia che non ti succeda niente di male, vorrei che la tua vacanza fosse serena, così l’anno prossimo ritornerai, e insieme riprenderemo le nostre passeggiate. Di volta in volta io ti segnalerò le persone che dovrai evitare, certi ladri d’appartamento e spacciatori di droga, frequentatori abitudinari di alcuni locali notturni poco distanti da casa tua. I venditori di polvere bianca, con la scusa di chiederti una sigaretta o di offrirtela, cercano d’incastrarti di giorno come di notte. Perciò stai attento, mi raccomando! Se hai qualche dubbio, parlane prima con me; inoltre, se ti fa piacere potrei occuparmi io di tenere in ordine il tuo appartamento.
A Sergio sembrò un poco eccessivo tanto interessamento nei suoi riguardi, ciò nonostante rispose:
- Antonia ti ringrazio, ma degli spacciatori non mi preoccupo affatto, visto che sniffare droga non rientra nel mio stile di vita. Riguardo ai ladri poi, aggiunse sarcasticamente, ritengo che non ci sia luogo più sicuro che quello di vivere nella stessa tana del lupo. Pertanto non me ne preoccuperei, e tu dovresti fare altrettanto, vedrai che qui non corro alcun rischio e per la tua disponibilità, te lo farò sapere quando ne avrò bisogno. 
Ma ben presto Sergio ebbe modo di ricredersi poiché un topo “diurno,” fece presto capolino nel suo appartamento. Era entrato attraverso la piccola finestrella del bagno, incautamente lasciata aperta, portandosi via un Walkman e un po’di danaro trovato sul tavolo in cucina. Data l’esigua entità del furto preferì non sporgere denuncia, ritenendo che la perdita di tempo con la polizia per le formalità da espletare, avrebbe causato un danno maggiore alla sua vacanza. Non ne parlò neppure con la sua amica Antonia, onde evitare che la notizia si propagasse in tutto il Paseo Maritimo. Ciò nonostante, alcuni giorni dopo quell’avvenimento, mentre si apprestava a desinare, sentì suonare il campanello alla porta. Al primo scampanellio finse di non sentirlo, ritenendo sgradevole lasciare raffreddare nel piatto una pietanza amorevolmente cucinata, poi alla seconda prolungata scampanellata, decise di aprire. Sull’uscio si trovò davanti due poliziotti in divisa che bruscamente, e senza un cenno di saluto, gli chiesero di entrare perché dovevano parlargli. Sergio li guardò perplesso, poi spalancò del tutto l’uscio e lasciò il passo.
- Abbiamo saputo che lei ha subito un furto. Ce lo può confermare? domandò uno dei due poliziotti, il più giovane.
Prima ancora di rispondere, Sergio osservò un istante di silenzio e chiese:
- Posso sapere chi vi ha passato questa informazione?
-  Le domande siamo noi a farle, disse con tono sgradevole il secondo poliziotto,  quello dalla mascella squadrata alla gangster da film anni trenta.
- Non dubito che la vostra divisa vi dia dei diritti, ma devo ricordarvi che  siete in casa mia, e rifiutarmi di rispondere è un mio diritto.
- Il mio collega non intendeva irritarla, intervenne il giovane poliziotto, ma si da il caso che da tempo si stanno verificando diversi furti in questo quartiere, ed è nostra ferma intenzione riuscire ad acciuffare il responsabile, che supponiamo sia sempre lo stesso. Perciò la collaborazione dei cittadini ci è indispensabile. Riguardo la segnalazione del furto, l’abbiamo ricevuta telefonicamente ed è anonima. E’ tutto!
- Va bene, ora mi ritengo soddisfatto e sono a vostra disposizione!
Dopo avere risposto esaurientemente alle domande di rito, li deluse quando disse di non potere descrivere il ladro, per il motivo che non l’aveva né visto né sentito, poiché non sempre era rimasto in casa. Fece vedere la finestra del bagno da dove il ladro si era introdotto, che non presentava alcuna effrazione, ma tenuta abitualmente aperta durante la giornata per l’aerazione dell’ambiente. 
Poi i poliziotti gli chiesero il perché non avesse denunciato il furto, al che Sergio rispose che riteneva il danno irrilevante, tuttavia era intenzionato a farlo.  (questa era stata una menzogna improvvisata.)   
L’ultima domanda fu Sergio a porla ai poliziotti:
- Posso sapere almeno, se la persona che ha telefonato al vostro commissariato é stata una donna oppure un uomo?
I due si scambiarono una breve occhiata e la voce di mascella squadrata si fece sentire:
- Era una donna!
Quando finalmente Sergio chiuse l’uscio di casa alle spalle dei tutori dell’ordine, gettò un languido sguardo alla pietanza sul tavolo, e non potette trattenersi dall’esclamare le stesse parole pronunciate da Scarpia in Tosca : 
”la povera mia cena fu interrotta.”
Ma se l’appetito era passato, la curiosità nello scoprire l’autore della soffiata alla polizia era cresciuta, dal momento che lui non aveva proferito parola con nessuno. Di sicuro doveva essere stato qualche bravo vicino di casa pensò, e in cima ai suoi sospettati Antonia figurava essere la prima della lista. Senza esitare un istante andò a farle visita, e lei assicurò di non saperne nulla, aggiungendo che neppure i suoi vicini dovevano esserne al corrente, altrimenti lei sarebbe stata la prima ad essere informata. 
- Di questo ne sono più che certo Antonia. Credevo che dalla mia terrazza ero uno dei pochi capace di controllare i movimenti di tutti, invece… 
- Ma non ti devi preoccupare americano, vedrai che non mi ci vorrà molto a scoprire l’autrice della telefonata…, e ho già un sospetto. 
- Non vorrai mica metterti a giocare a fare il detective, spero? A me è bastata la visita di quei due poliziotti per rompere la tranquillità della mia giornata. Perciò lascia a loro il compito di scovare il ladruncolo e riguardo la telefonata, ritengo che la cosa più sensata da fare sia dimenticarla. Io non desidero rovinare i buoni rapporti con il vicinato, inoltre ci terrei a trascorrere questa vacanza in tutta serenità. Tutto sommato si è trattato di un modesto furtarello. Se solo penso a quanta fatica deve aver fatto quel poveretto per passare attraverso la finestrella, mi sento già disposto ad assolverlo.
- Per te forse, ma non per me! Io so che il vederci spesso insieme, provoca gelosia e invidia in qualche signora che si ritiene mia amica, ed intendo scoprire chi è l’infame che si nasconde dietro questa falsa amicizia. Ma vedrai che prima o poi, la “signora anonima” si farà viva con me. La curiosità di sapere quello che ti è stato rubato la tradirà, ed io la costringerò ad ammettere non solo la sua colpevolezza, ma anche a rivelarmi l’eventuale autore del furto.
- Pensi davvero che questa persona possa conoscerlo?
- La telefonata è stata fatta da chi ha visto entrare o uscire il ladro da casa tua, quindi è gioco forza che sappia chi è stato e che possa riconoscerlo. Nel nostro quartiere gli squali predatori li conosciamo tutti. Arrivano d’estate a caccia degli stranieri che come te, credono che la vita in un piccolo borgo sia tranquilla e priva di pericoli. Niente di più falso! 
- Può darsi che tu abbia ragione Antonia, ma non illuderti in una rapida soluzione.
- Quello che ti chiedo americano, è di non interrompere le nostre passeggiate, dobbiamo continuare a vederci come sempre e far finta che nulla sia successo. Sei d’accordo?
- Naturalmente! aggiunsi. Ma non potetti fare a meno di augurarmi che la mia brava amica non stesse rimuginando strane idee sulla nostra amicizia, visto che una volta dichiarò “pubblicamente” che gli stavo  realmente a cuore.
Che Antonia riuscisse nel suo proponimento Sergio non lo dubitava, era astuta e parlava con tutti. Pur di accontentarla, da quel giorno i due fecero coppia fissa e decisero che le loro passeggiate “terapeutiche,” dovevano svolgersi non soltanto al sorgere del sole, bensì anche nel tardo pomeriggio, quando i vicini uscivano dalle loro abitazioni per godersi lo zefiro serale. Questo era il momento più propizio per trovare un gran numero di persone intorno ad Olimpia.
Un giorno durante una consueta passeggiata mattutina, Antonia che aveva l’abitudine di parlare a briglia sciolta, forse a corto di pettegolezzi e sapendo che Sergio era scrittore, si offrì spontaneamente di raccontargli una vicenda realmente accaduta ad una sua cugina, la quale viveva in un borgo di pescatori in la Coruña, nel nord-ovest della Spagna. 
Antonia ormai era diventata per lui il più prezioso informatore, perciò non si sorprese quando la sentì dire che questa storia dai risvolti tragici, avvenuta molti anni prima, poteva certamente interessarlo. 
Immaginando fosse uno dei soliti avvenimenti senza capo né coda che quotidianamente gli propinava, e distrattamente lui ascoltava, rimase alquanto sorpreso nel constatare il mesto tono della voce e il repentino cambiamento d’espressione dell’amica.
- Certo Antonia, io ho sempre bisogno di rinnovare le mie storie, meglio ancora  se i fatti sono realmente accaduti. 
- Quello che adesso ti racconterò, allora ti potrà tornare utile. 


- La protagonista, iniziò Antonia, è una mia cugina di primo grado, il cui nome era Consuelo Purificación Santos. Ho detto era, poiché dopo i tragici avvenimenti che si abbatterono sulla sua famiglia, nessuno più la chiamò con il vero nome di battesimo. Per tutti divenne semplicemente la ” Blanca,” cioè capello bianco, a causa del rapido cambiamento del colore dei capelli. Molti anni dopo la tragica fine del marito, andai a trovarla per la seconda volta. Quel giorno la trovai in cucina, immobile davanti ai vetri della finestra e neppure mi sentì entrare, tanto era assorta nei suoi pensieri, o forse in qualche contemplazione racchiusa nella sua immaginazione.
Incuriosita, provai a guardare di sopra le sue spalle verso l’esterno, cercando di scoprire che cosa poteva avere catturato il suo interesse, ma non vidi nulla, tranne l’orizzonte. Capii che il suo sguardo era focalizzato proprio su quella lontana linea che separava il cielo dal cupo colore del profondo mare. Ebbi l’impressione che mia cugina stesse viaggiando fuori dal nostro tempo, in un’altra dimensione, intenta a seguire avvenimenti della sua vita proiettati sopra uno schermo riservato solo a lei. Quando finalmente avvertì la mia presenza, lentamente volse il capo verso di me, e mi resi conto che in quel momento stava rientrando dall’altra dimensione e riprendendo coscienza del suo corpo.
- Antonia, da quanto sei qui, quando sei arrivata? mi chiese.
- Da poco, le dissi.
-  Hai fatto bene a venire e sono molto contenta che tu sia qui. Ho bisogno di parlare con qualcuno che mi possa ascoltare. Vieni, siediti vicino a me, ti prego! Voglio che tu sappia come il destino può cambiare la vita di un’intera famiglia in breve tempo.Ti ricordi di mio marito José Antonio, vero?    
- Si, ci siamo incontrati più di una volta.
- Ebbene, allora ascolta quello che è accaduto!
- Una sera José è uscito con la sua barca insieme a due compagni per una battuta di pesca notturna, come d’abitudine facevano. Quella sera c’era poco vento e niente lasciava supporre un rapido cambiamento del tempo, al punto che tre poveri innocenti dovessero pagarne le conseguenze. 
Quella notte per compiere il suo delitto, il mare improvvisamente si è gonfiato a dismisura, onde gigantesche spinte da un vento impetuoso si sono sollevate paurosamente verso il cielo. L’oscurità della notte buia era illuminata da un susseguirsi di fulmini simili a serpenti impazziti, che ampliavano il lugubre paesaggio marino. A memoria d’uomo di questo villaggio, mai nel corso degli anni si era vista una tempesta di tale violenza. Le porte dell’inferno sembravano spalancate e pronte ad inghiottire l’intero villaggio e noi tutti con esso. Chiusi nelle nostre case a pregare, sentivamo con terrore il tonfo sordo delle onde che si abbattevano con violenza sulla scogliera. Tutto questo durò sino all’alba, e quando finalmente il peggio era passato, s’incominciarono a contare i danni subiti, che furono enormi. Molte case erano state interamente scoperchiate, le imbarcazioni strappate dagli ormeggi furono scaraventate contro la scogliera e distrutte, altre affondarono sotto la furia delle onde. A noi non restava che imprecare, disperarci e ricucire  in fretta e furia le ferite subite, prima del sopraggiungere della notte.
Nel frattempo l’imbarcazione di José Antonio, imbattutasi proprio nel mezzo del fortunale, non ebbe scampo. Dopo essersi  spezzata in due tronconi, si era inabissata come un vecchio ferro da stiro. Era la notte del 2 gennaio!
Delle tre persone che formavano l’equipaggio, uno fu tratto in salvo da un mercantile francese nelle prime ore dell’alba mezzo assiderato, il secondo fu ripescato annegato il giorno successivo, mentre il corpo di José Antonio è rimasto per sempre nelle profondità del mare.
Il mare è traditore e non conosce pietà, non si cura di sapere a quale ceto le vittime appartengono. 
Del naufragio io non venni informata da nessuno, poiché nessuno del villaggio ebbe il coraggio di farlo, ma lo scoprii ben presto da sola. Il sospetto che una tragedia aleggiasse nell’aria, l’avvertii dai gravi rintocchi provenienti dal campanile della nostra malandata chiesa. Nell’udire il triste suono, un brivido mi corse lungo la schiena e senza esitare un attimo, presi in braccio l’ultima dei miei figli, Dolores Consuelo e mi affrettai a raggiungere il porticciolo ormai deserto. 
Il mio primo sguardo cadde sullo specchio di mare antistante la banchina, dove l’onda termina la corsa e s’infrange contro la roccia. Nel frattempo all’orizzonte tutto era ritornato calmo e silenzioso, il mare aveva riacquistato il fascino abituale di sempre, invitante come il canto di una sirena a riposo. Poi il mio sguardo fu attratto da un pezzo di legno galleggiante, sul quale campeggiavano bianche lettere con la scritta Zefirus I. 
Quel nome lo conoscevo troppo bene, poiché l’aveva scelto José Antonio ed ero stata io a scriverlo. Ripescai quel pezzo di legno, testimone di tanti sacrifici affrontati per estinguere un debito ancora aperto, dal quale  era dipesa la nostra sopravvivenza sino a poche ore prima. Dal giorno dell’acquisto della imbarcazione erano trascorsi diversi anni, quasi impossibile ricordarmeli con esattezza, ma impossibile dimenticare l’orgoglio che José  nutriva per quel capitale galleggiante. Il primo della sua vita, per il quale aveva contratto un debito con la cooperativa dei pescatori, che godeva la fiducia dell’unica banca locale. 
Il giorno della disgrazia, quando mi recai sul molo, per ore rimasi immobile come una statua a scrutare in lontananza l’arrivo di qualche imbarcazione che riportasse vivo il mio uomo scampato al naufragio. E nel frattempo speranzosa pensavo: 
- Pazienza se lo Zefiro é andato distrutto, José Antonio e i ragazzi andranno nuovamente a lavorare sotto padrone per un tempo, poi tutti insieme ricominceremo a risparmiare per onorare il debito contratto e ci riusciremo, perché noi siamo una famiglia unita. L’importante è che lui ritorni, poi tutto si aggiusterà. Ma la mia speranza di riaverlo, rimase un desiderio disatteso.
C’era però una cosa che io ignoravo del tutto. La cooperativa di pescatori alla quale José apparteneva, ogni mese tratteneva una percentuale fissa sul ricavato del pescato dei soci, che aderivano all’iniziativa del “Mutuo Soccorso”. Questa era la denominazione data all’associazione, alla quale tutti i pescatori avevano aderito di buon grado. Il danaro, accumulato e depositato in banca, serviva a sostenere le famiglie che per disgrazia avessero perso un loro familiare in mare. L’aiuto finanziario che avrebbero ricevuto era proporzionato al grado di parentela, a seconda se si trattava di un capofamiglia, di un figlio o di un parente che con il suo lavoro manteneva una famiglia. 
Di questa iniziativa José Antonio non me ne aveva mai parlato per superstizione, forse pensando che era meglio pagare mensilmente la quota, purché a riscuoterla non fosse stata la sua famiglia.


-Antonia, chiesi interrompendo la mia brava narratrice, la Blanca non aveva figli?
- Eccome se ne aveva, addirittura quattro. Pensa che mia cugina e José
si erano sposati giovanissimi, appena diciassettenne lei, quando era già in attesa di Victor Enrique il primogenito, mentre José di anni ne aveva ventidue. Ogni tre anni la prole cresceva, e così altri due figli maschi si aggiunsero alla lista, Carlos Antonio e Sebastian Juan. Dopo una pausa di circa otto anni, inaspettatamente era arrivata una bimba, alla quale vollero dare il nome della nonna materna, Dolores Consuelo. Ora ascolta il seguito di quello che mia cugina disse.


- Tutti in famiglia adoravamo la piccina, perché una femminuccia in casa ci mancava proprio, perciò il suo arrivo inaspettato ci rese immensamente felici. Appena un anno dopo la nascita però, Dolores fu colpita da una forma di leggera poliomielite ad una gamba, crescendo lei avvertì la diversità che la separava dalle coetanee. Così il suo carattere mutò radicalmente, diventando scontrosa e dispotica, cosa che ci procurò non pochi dispiaceri. Malgrado le difficoltà quotidiane da superare, la nostra famiglia non vacillò un attimo. Quando avvenne la disgrazia dello Zefiro, la piccola aveva compiuto quattro anni, mentre io di anni ne avevo appena trentasei, il tempo era stato incredibilmente generoso con me, conservandomi sana in salute e di buon aspetto. Solo i capelli, divenuti improvvisamente canuti, contrastavano con l’aspetto fisico. Nonostante ciò, ero rimasta la donna di sempre energica e battagliera, e così gli abitanti del villaggio vollero darmi quel soprannome appropriato, che da sempre mi porto dietro.
Quando sul molo attesi per ore il passaggio di qualche imbarcazione che mi portasse notizie di José, a darmi coraggio c’era con me solo la piccola Dolores, che non smetteva un attimo di accarezzarmi. Allora me la strinsi forte al petto e decisi che nella mia vita non ci sarebbe stato più spazio per il pianto. A cosa serve piangere, quando il treno della vita continua imperterrito la sua  sfrenata corsa? Ogni donna che va in sposa a un uomo che vive del mare conosce il rischio a cui si espone, sebbene preferisca ignorarlo e confidi nella Divina Provvidenza: il pane quotidiano dei poveri e dei derelitti. Nel nostro villaggio sono tante le donne che da tempo vestono a lutto.  
Tornai a casa e senza indugiare più del necessario, decisi che se non piangevo io, anche i miei figli avrebbero dovuto imparare a farlo.
Radunai tutta la prole intorno al tavolo, come se fosse l’ora del pranzo,  e tenni un breve discorso. Non dissi che il nostro José Antonio era morto, bensì che non c’era più, come pure lo Zefiro, e aggiunsi: da domani tutti insieme lavoreremo per estinguere il debito con la banca. Non appena ci concederanno un nuovo prestito, compreremo un’altra imbarcazione che chiameremo Zefiro II, e riprenderemo la via del mare come vostro padre ci ha insegnato a fare. 
I ragazzi non aprirono bocca e sul mio esempio, non piansero. Solo per un momento si udì la voce della piccola Dolores Consuelo che chiese: 
- Allora dobbiamo pregare? 
- Così come hai sempre fatto!
Quel giorno nessuno si sedette a tavola, sebbene un odore di stufato volteggiasse per la stanza. Per nostra fortuna le cose andarono diversamente da come avevo previsto. L’ipoteca dello Zefiro I venne liquidato dalla solidarietà del Mutuo Soccorso e noi iniziammo a pensare all’acquisto dello Zefiro II, ma ci mancava il danaro per farlo. 




PARTE SECONDA




Pensai di rivolgermi nuovamente alla banca per un prestito, pur sapendo che avrebbero preteso delle solide garanzie. La sola cosa che io avrei potuto offrire era la mia casa, però l’idea mi ripugnava. Il timore di perdere quell’unico bene che possedevamo ebbe il sopravvento, ciononostante ero decisa a tentare. Mi recai a parlare con il direttore della banca, il signor Jorge Gonzalo Serano, ch’è anche il proprietario. 
L’aspetto esteriore di costui era disgustoso, ed io avvertii subito la sensazione di trovarmi davanti a un essere subdolo e sfuggente, difficile da ammorbidire con le suppliche e del quale dovevo diffidare. Il signor Serano oltre ad essere  esageratamente grasso, aveva un faccione rosso e rubicondo come un cocomero estivo giunto a piena maturazione, le mani perennemente sudaticce e fredde  come il ghiaccio. Poiché lui era consapevole di quella strana anomalia, se ne serviva a suo piacimento in certe occasioni. Quando stringeva la mano a una persona che sottostimava, per sadismo si divertiva a trattenergliela il più a lungo possibile tra le sue. Era un modo per dimostrare “all’antipatico” il suo disprezzo. Durante il nostro colloquio, inizialmente si dimostrò affabile e comprensivo per la disgrazia della mia famiglia, poi volle sapere con quali risorse stavamo vivendo, quanti figli avevo, se lavoravano e soprattutto, quali erano i miei progetti per il futuro. 
Appena ebbe termine l’interrogatorio, gli spiegai il motivo della mia visita. 
- Signor Serano, sono venuta a chiedere un prestito per comprare un nuovo peschereccio. Abbiamo bisogno di riprendere il nostro lavoro in mare con urgenza, e l’imbarcazione ci è indispensabile, anche di seconda mano ci andrà egualmente bene, purché sia in discreto stato. In seguito, quando le cose riprenderanno a girare nel giusto verso penseremo a cambiarla, per ora è giusto limitarci all’indispensabile.
- Signora, ammiro il suo coraggio, la perspicacia nel pianificare il futuro suo e quello della sua famiglia, e vorrei poterle venire incontro. Mi dica, di che cifra avrebbe bisogno e soprattutto, che garanzia offrirebbe? Deve capire che dalla banca non può uscire danaro se non vi è una solida copertura, questo non è un ente di beneficenza. Se ricordo bene, una volta suo marito mi disse che era riuscito a comprare una casa, quella dove voi attualmente vivete, immagino. Voi l’avete ancora, oppure è stata già venduta? 
- No! Non è stata venduta e non vorrei neppure farlo. Ho quattro figli e necessitiamo di un tetto sicuro. Però le garantisco signor direttore, che le restituiremo il danaro nei termini che lei crederà opportuno fissare. Accetteremo ogni sua condizione, e di certo non verremo meno alle nostre responsabilità, siamo una famiglia onesta e rispettabile. Mi deve credere sulla parola!
Lui non rispose subito, restò in silenzio per qualche minuto guardandomi fisso negli occhi, poi allungò le sue mani verso le mie, ma solo per sfiorarle con delicatezza, disse:
- Benedetta signora, capisco la difficoltà nella quale si sta dibattendo, ma come le ho già detto, per ovvie ragioni non faccio la carità. Questo lo capisce, vero? Certo le posso venire incontro, se prendiamo in considerazione una eventuale ipoteca sulla casa, ma non per la cifra che lei mi sta chiedendo, che trovo eccessiva. Comunque mi lasci un giorno di tempo per riflettere, poi cercheremo insieme una soluzione ragionevole che accontenti entrambi, vuole?
- Quale altra alternativa potrebbe esserci oltre all’ipoteca, secondo lei? Perché io una soluzione potrei già avercela, dissi d’impeto. 
- Davvero? E quale sarebbe questa geniale soluzione? Sentiamola!
- Ecco, se il capitale per l’acquisto l’investisse lei, io e i miei figli ci proponiamo come manodopera. Il ricavato del pescato lo divideremo equamente, così lei si ritroverebbe proprietario di un peschereccio con un equipaggio fidato che non le costerebbe niente anzi, interessato a tutelare i reciproci interessi in modo esemplare. Poi, nell’eventualità che un giorno volesse disfarsi della
imbarcazione, sin da questo momento m’impegno per iscritto ad acquistarla, indipendentemente dalle condizioni nelle quali si verrebbe a trovare.
- Non sia troppo precipitosa, signora. Pur ammettendo che io possa decidermi a fare una pazzia simile, mi sembra un’assurdità dividere i benefici in parti eguali con la ciurma, considerando poi che una disgrazia in mare potrebbe accadere in qualsiasi momento, come è successo a suo marito ad esempio, ed in quel caso io perderei d’un sol colpo tutto il capitale investito….
- E noi la nostra vita! A questo non ci ha pensato? Gli urlai in viso alzandomi di scatto. 
- Signora io sono costretto a pensare ai benefici della mia banca, diversamente potrei fare a meno di esistere. Ad ogni modo facciamo così, questa sera dopo le otto venga a casa mia, con discrezione e senza farsi notare. La discrezione è la prima delle regole da osservare, per lei quanto per me, e soprattutto tenga la bocca cucita, non vorrei che si venisse a sapere che proprio a lei ho fatto un trattamento di favore. Stasera ci mettiamo comodamente seduti davanti al tavolo e le prospetterò ogni possibilità disponibile, salvaguardando i reciproci interessi nel migliore dei modi. Naturalmente senza dimenticare l’eventuale ipotesi dell’ipoteca. Come vede ci tengo ad aiutarla, e cerco di fare per lei quello che non farei per nessun altro cliente.


- E tua cugina gli ha creduto, chiesi ad Antonia?
- Mia cugina, come già ti ho detto, era una persona intelligente,  e decisa quando c’era da affrontare una situazione scabrosa. Comunque prima di accettare l’invito del grassone, si era già preparato un piano nei minimi dettagli. Ora ascolta il seguito della storia che dette inizio al secondo atto della tragedia.


- Naturalmente, proseguì la Blanca, avevo capito che l’idea di diventare soci al Serano non interessava affatto, data la sua ingordigia di danaro, e immaginai a cosa  mirava quel verme proponendomi di raggiungerlo a casa sua. Comunque accettai l’invito! Ero decisa ad ottenere a tutti i costi quel danaro che rappresentava l’unica risorsa di sopravvivenza per la mia famiglia. Convenimmo d’incontrarci il giorno successivo all’ora che lui aveva stabilito, alle otto di sera.
Ad aprirmi la porta fu lui stesso, e notai subito che indossava una sontuosa vestaglia di seta ricamata, inoltre si era agghindato e profumato come se stesse per andare ad una grande festa. Non mi fece sedere davanti al tavolo, come era stato programmato, ma mi offrì un posto sul sofà, perché  “più comodo e rispettoso per una signora,” disse. Lo guardai freddamente, e lui preferì abbassare gli occhi fingendo di prendere una sigaretta, che non accese. 
- Blanca, vi ha visto qualcuno entrare da me? S’informò subito con apprensione.
- No! Mi sono attenuta alle sue istruzioni. Allora signor Serano, ha trovato qualche soluzione alternativa al mio problema?
- Forse qualche cosa si potrà fare, ma tutto dipende da lei.
- Da me? Se pensa che io abbia cambiato idea riguardo all’ipoteca della casa, devo deluderla! Le ho già detto che la casa mi serve per dare riparo ai miei figli.
- Innanzitutto Blanca, qui non siamo in banca ma a casa mia, perciò diamoci del tu, d’accordo? Poi, per l’aiuto che mi chiedi vorrei che ci fosse un poco di collaborazione da parte tua, o per meglio dire, comprensione nei miei riguardi. 
- Collaborazione in cosa?
- Vedi Blanca, data l’istituzione che rappresento, sono obbligato a mantenere una condotta proba. Non posso correre dietro le gonnelle del paese, anche se ne avrei tanta voglia, ma mi trattengo dal farlo per evitare che si rida di me a causa della mia…come dire, solida prestanza fisica. Vivo nell’agiatezza, ma  non ho una compagna fissa, e questo m’infastidisce molto. Purtroppo, il danaro non sempre da tutto ciò che si desidera. Ora voglio farti una confidenza, che è anche una proposta. La confidenza ti riguarda. Devi sapere che da tempo avevo messo gli occhi su di te, addirittura prima della morte di tuo marito. Mai prima di oggi però, mi si era presentata l’occasione di esserti tanto vicino, di sentire la tua voce, avvertire il calore del tuo corpo. La mia proposta riguarda proprio la tua vicinanza, che vorrei fosse costante e comprensiva. Se un paio di volte alla settimana tu venissi a trovarmi, diciamo facendo sapere in giro che vieni per accudire alle faccende domestiche di questa casa, io sarei disponibile a risolvere il tuo problema finanziario nel migliore dei modi. Che te ne pare, mia cara?
Così dicendo, cercò di attirarmi a sé con violenza per stringermi tra le sue  braccia e all’istante, sentii quanto sudicio fosse l’animo dell’essere che avevo di fronte. Con rapidità  mi scansai, facendolo cadere riverso sul sofà a faccia in giù, e mentre mi avvicinavo alla finestra gli gridai: se l’apro mi metterò ad urlare che lei mi sta violentando, così vedremo se avrà la sfacciataggine di giustificare le sue molestie davanti ai suoi clienti che accorreranno. 
- No! Non lo fare, altrimenti per quanto è vero Iddio ti puoi scordare per sempre il prestito. Avevo già preparato un acconto che si trova nel primo cassetto della scrivania. Aprilo! vedrai che non sto mentendo. 
- Feci come lui disse, e constatai che aveva detto il vero. Nel cassetto c’era un bel pacchetto di biglietti di grosso taglio, certamente già contrassegnati, che non toccai, pensando che quella fosse una messa in scena per convincermi ad accettare la sua proposta. Un vile tranello escogitato per invogliarmi a prendere quel danaro e ritrovarmi magari una denuncia per furto, nel caso di un mio rifiuto di sottostare alle sue voglie. Allora rinchiusi il cassetto ed iniziai ad aprire la finestra.
- Ma cosa fai? Sei impazzita? Quel danaro è per te, lo giuro. Faremo come tu hai proposto, società a metà in tutto.
Del suo giuramento non mi fidavo, volevo una garanzia maggiore. Dalla  finestra semiaperta feci un cenno a mio figlio che attendeva un mio segnale per salire, e dopo qualche istante una ventata di aria fresca accompagnò l’ingresso del ragazzo nella stanza. A Victor bastò darmi una rapida occhiata per comprendere quanto stava accadendo ed era pronto a gettarsi su Serano, che paralizzato dal terrore per l’improvvisa comparsa, cercava già di coprirsi il viso con entrambe le braccia, certo di venire malmenato.
- Ascolti Serano, io quel danaro lo prenderò solo dopo una sua dichiarazione scritta, nella quale dovrà sottoscrivere di  avermelo dato come anticipo per la nostra futura società.  
        
- E Serano accettò la proposta della Blanca, chiesi?
- Per Serano, rispose Antonia, le alternative erano solo due: accettare oppure essere strapazzato per bene da Victor. Ovviamente il grassone optò per la prima soluzione.
- E il danaro fu poi versato a tua cugina, chiesi?
- Certo, ma non quanto la Blanca aveva richiesto e sperato. Serano era  intenzionato a sborsare solo il minimo per acquistare un’imbarcazione di seconda mano, che battezzarono con il nome di Zefiro II.  
















 INCUBI    (NEW)

Eravamo seduti sulla stessa panca nel parco, uno accanto all’altro, di fronte all’edificio che un tempo era stato la mia scuola. Il ragazzino, dall’apparente età di nove anni, indossava una tipica divisa scolastica: mantellina di panno scuro con calzoncini corti dello stesso colore, maglione giro collo tirato sopra il naso a causa del freddo pungente, e in testa portava un basco di panno nero calato sulle orecchie. Entrambi avevamo gli occhi puntati verso lo stesso edificio, io per rivivere i miei lontani anni da allievo, lui, la mente rivolta ai suoi pensieri. In quell’istituto avevo trascorso i primi otto anni da internato e ricordavo ancora distintamente la grande insegna a larghe lettere dorate, contornate di iris azzurri e sottili tralci verdi, affissa sul cancello d’entrata che Antonio, il nostro bidello factotum, lucidava tutti i giorni con cura. La scritta in francese annunciava l’ingresso al “FOYER DES ETUDIANTS. Un biglietto da visita per niente trascurabile per dare lustro all’antico istituto, dove gli studi proseguivano sino al conseguimento della maturità classica. Per accedere al Foyer, riservato esclusivamente a una determinata classe d’elite, bisognava avere non pochi mezzi finanziari. Adesso, dopo molti anni dalla mia partenza, l’elegante ed elaborata scritta francese era stata sostituita con un’altra di modeste dimensioni a forma circolare e comprensibile a tutti, che recitava:                                                                        ORFANOTROFIO di Santo Onofrio
                                                                           
Quando io frequentavo il Foyer, l’istituto era diretto da una coppia di coniugi francesi dal nome alquanto difficile da pronunciare, i Signori André e Clotilde Beaumartin, parsimoniosi ma capaci di accudire la loro proprietà in maniera encomiabile per più lustri. Successivamente, per raggiunti limiti di età e acciacchi vari, la coppia priva di prole, aveva fatto dono dell’immobile al comune in cambio di un modesto vitalizio, ritirandosi a vita privata. A sua volta il comune volle trasformare l’edificio in una meritoria opera sociale, affidandone la direzione ad una comunità religiosa del luogo, affinché provvedesse ad accogliere e istruire i ragazzi orfani e abbandonati. L’incalzare degli anni e l’incuria dei nuovi responsabili dell’orfanotrofio, mostrò rapidamente gli inesorabili segni del declino. Così il bel colore delle pareti esterne, un tempo tinteggiate di fresco giallo paglierino, adesso era diventato grigioverdastro, causato principalmente dalle malridotte grondaie penzolanti, che scaricavano l’acqua piovana direttamente sulle pareti. Ad affrettare ulteriormente il dissolversi del restante colore, contribuiva in larga misura anche l’umidità del parco circostante. Alcuni vetri rotti delle finestre erano stati riparati con fogli di plastica scura, con l’intento d’impedire alla pioggia e al vento di tramontana di penetrare all’interno delle aule.
Per un istante ebbi l’impressione di avvertire ancora addosso il freddo patito in quelle enormi stanze, con il riscaldamento che d’inverno andava mantenuto sempre al minimo indispensabile, obbligando noi alunni a rimanere serrati l’uno all’altro in cerca di tepore. Potevo facilmente immaginare la sofferenza dei piccoli ospiti di adesso, con lo stabile in un tale degrado. Del mio internato serbavo un ricordo infelice, ma stranamente da adulto qualcosa mi aveva spinto a ritornarci, forse per la curiosità di capire la ragione di certe angherie perpetrate dai grandi nei nostri confronti. I grandi erano i nostri insegnanti convinti, stupidamente, che solo incutendo timore e una ferrea disciplina, avrebbero ottenuto rispetto e buoni risultati dagli allievi. Certi di tali convinzioni i precettori avevano mano libera da parte di don Ignazio, il direttore, che in nessun caso interveniva per graziare o ascoltare la controparte, noi alunni, cosicché gli abusi erano all’ordine del  giorno. Le punizioni più frequenti erano di escluderci dalla gita domenicale, il giocare a pallone per una intera settimana o, peggio ancora, il divieto di incontrare i nostri genitori nei giorni prestabiliti in parlatorio. Ripensando a questi avvenimenti, ebbi l’impressione che nella mia mente riaffiorassero i giudizi del piccolo allievo che ero stato, giudizi inesorabili che a quel tempo era impensabile esternare, ma che adesso era giunto il momento della rivincita.

Rivedo i miei insegnati distintamente, ne potrei addirittura descrivere sinteticamente i profili: il colore dei capelli, la tonalità della voce, il modo di camminare, le fisime di ognuno di loro…, e mentre li passo in rassegna, emetto la sentenza: “Nessuno meritevole di essere assolto.” L’unica eccezione la riservo al vecchio e paterno giardiniere Simone, che all’occasione non mancava di consolarci, scusando talvolta l’atteggiamento severo dei professori che agivano in quel modo unicamente per il  bene di noi alunni.
A fatica avevo rimosso dalla mente le persone che ne facevano parte, eppure la visione dell’istituto mi riportò al lontano giorno in cui, insieme ai miei genitori, ci recammo a visitare la scuola per la prima volta, al termine della quale mi ritrovai iscritto al nuovo anno scolastico. Sento ancora la voce paterna che affermava con convinzione, che quella era la scuola adatta per me, dove sarei cresciuto in un sano e equilibrato spirito religioso e il profitto ne avrebbe trovato giovamento.
A conclusione, aggiunse un’importante raccomandazione:
- Evita di frequentare i ragazzi turbolenti e fannulloni, perché a loro non sarebbe stato concesso neppure di trascorrere il Natale in famiglia.
A quel tempo io avevo solo dieci anni, ciononostante giudicai quel provvedimento inflitto ai miei futuri compagni una vera crudeltà, perciò iniziai a fare tante domande, compresa quella che mi riguardava da vicino.
- Perché devo proprio andare in questa scuola?
La risposta non si fece attendere a lungo:
- Perché qui non ci sono distrazioni e s’impara ad amare lo studio!
Mio padre, militare di carriera, all’occorrenza amava esprimersi in maniera breve e concisa.
Purtroppo sono sempre i grandi a dettare legge, nel bene e nel male, perciò la mia richiesta fu respinta, ma da quel giorno le mie notti furono funestate da tragici sogni. Uno di questi si materializzava nel momento in cui il grande portale dell’istituto si spalancava e un signore altissimo, a braccia conserte  e privo di lineamenti nel volto, compariva sulla soglia e mi aspettava. Lentamente gli andavo incontro e per non guardare quella strana figura, tenevo la testa costantemente girata verso i miei familiari rimasti fermi alle mie spalle, che con un gesto della mano alzata accennavano un lento saluto, senza proferire parola. E mentre io avanzavo verso la figura, i miei genitori rimpicciolivano a dismisura sino a scomparire. Ed era proprio la loro sparizione che mi terrorizzava e mi svegliavo tra grossi singhiozzi.
Comunque non era questo l’incubo peggiore che mi perseguitava e terrorizzava. Quello si svolgeva in un parco di vaste dimensioni, stracolmo di piante da fusto altissime che crescevano fitte, fitte, una attaccata all’altra sino a formare una barriera invalicabile, ed io ero convinto che fossero state fatte crescere di proposito in quella maniera per impedirmi di andarmene. Ai piedi degli alberi c’era una enorme quantità di fiori, di forma strana e sconosciuta, che emanavano un profumo tanto intenso da provocarmi l’emicrania. Volevo fuggire, ma tutte le volte che mi avvicinavo alla barriera delle piante in cerca di un varco, il profumo aumentava d’intensità e di conseguenza la mia emicrania diventava insopportabile. Per attenuare il malessere, ero costretto ad allontanarmi dai fiori e mentre cercavo di riflettere sul da farsi, mi accorgevo improvvisamente di non essere solo.
Un gruppetto di ragazzi della mia stessa età, giocava con una palla di colore rosso vermiglio che non veniva calciata ma solo tirata a mano, e le volte che uno di loro la lanciava verso un compagno pronunciava il nome di un fiore. Se il nome del fiore era lo stesso pensato dall’avversario che riceveva la sfera, i ragazzi restavano fermi nella loro postazione, diversamente se il nome non coincideva, tutti si muovevano in un’altra zona. Quando la palla era in volo il colore della sfera non cambiava, tranne se toccava terra. Mi avvicinai ad uno dei ragazzi per chiedergli di indicarmi l’uscita del parco e a sorpresa, vidi che il ragazzo al posto degli occhi aveva soltanto due cavità orbitali sporche di sangue raggrumato. A quella vista indietreggiai e allo stesso tempo mi sforzavo di capire come fosse possibile che dei ragazzi così menomati, potessero giocare a palla. Incuriosito chiesi:
- Che gioco state facendo?
- Non lo vedi? A tirarci la palla.
- Ma come ci riuscite, se non potete vederla?
 Nel frattempo anche gli altri ragazzi si erano avvicinati e tutti in coro risposero:
- Non la vediamo, ma la sentiamo!
Li guardai con sospetto e mi accorsi che tutti avevano la stessa menomazione.
- Intendete dire che percepite l’arrivo della palla quando fende l’aria?
- Non il rumore, il profumo! La palla cambia colore secondo il luogo dove giochiamo, o se casca in terra. In questo momento siamo nella zona dei ciclamini e  addosso abbiamo quell’odore, perciò la palla non fa che seguire la scia del ciclamino. Prima invece, quando sei arrivato tu, giocavamo nella zona delle rose, ma non restiamo mai nella stessa zona perché ognuno ha le sue preferenze. 
- A me questo profumo provoca un forte mal di testa, dissi. A voi no?
- A noi piace, e poi è il nostro nutrimento quotidiano.
- Vi nutrite di profumo? Vuoi dire che non sentite la necessità di mangiare il pane, la frutta, i dolci…non vi fa gola quel cibo?
- Hai indovinato! Il profumo dei fiori è un condensato di quello che hai appena detto. Bisogna solo scegliere quello che si desidera e spostarci nella direzione voluta. Mentre riflettevo su quanto avevo sentito, il gruppetto si allontanò in cerca di un diverso profumo.
- Ascoltate, gli urlai dietro con forza, potete almeno indicarmi la strada per uscire dal parco?
Non ebbi nessuna risposta, ma uno dei ragazzi si staccò dal gruppo e mi raggiunse.
- Io la strada la conosco e se mi porti con te, te la farò vedere. Ci stai?
- Va bene, però affrettiamoci perchè questo posto non mi piace.
Il ragazzo mi prese per mano e solo allora mi resi conto che quell’orrenda maschera sconosciuta, non mi avrebbe più lasciato. Urlai, e un istante dopo mi ritrovai seduto nel mio letto madido di sudore.
Questo era il peggiore dei sogni che mi capitava e quando succedeva, anche il sonno della notte scompariva definitivamente.

Ora, seduto nel parco accanto a quel bambino raggomitolato nella mantellina scura, che mi lanciava occhiate furtive, mi chiedevo se ci potesse essere un rapporto con la maschera del mio incubo in cerca di aiuto. In bellezza, il piccolo non era un gran ché,  rasentava appena il passabile. Il viso mancava di giuste proporzioni, da sotto il casco nero spuntavano due orecchie simili a farfalle in volo, il naso era corto e le narici eccessivamente pronunciate, mentre il taglio degli occhi, neri come la notte, aumentava l’asprezza del viso.
Nonostante l’espressione seria e lo sguardo perso nel vuoto, il ragazzino incuteva tenerezza, e mi chiesi cosa l’inducesse ad essere tanto triste.  
Con discrezione provai di avvicinarmi a lui, cercando nel contempo di intuirne i suoi pensieri e chiesi:
- Come mai non sei con i tuoi amici a giocare? Il calcio è uno sport amato da tutti, e dal chiasso che stanno facendo i tuoi compagni, mi sembra di capire che si stanno proprio divertendo.
Poiché non ebbi alcuna risposta, dopo qualche minuto di silenzio continuai nel mio interrogatorio.
- Se non ti va di parlare dimmelo, o fammi un segno con la testa, così sarà più semplice capirci. Io mi chiamo Antonio, volevo solo dirti che tanti anni fa anche io ho frequentato la tua stessa scuola, ma allora aveva un altro nome.
Incuriosito, il piccolo finalmente rispose.
- E come si chiamava?
- Si chiamava Foyer des Etudiants.
- E cosa vuol dire quel nome là?
In poco tempo e con poche parole, finalmente avevo vinto la sua diffidenza.   
- Ecco, dissi, è un termine francese che in questo caso significa  “convitto degli studenti.”
- Ma allora è un orfanotrofio, come il posto dove vivo io?
- In un certo senso è così, i ragazzi vengono portati dai familiari per farli studiare, però ci restono solo per il periodo scolastico, poi ritornano dai loro genitori.
- Allora non è come da me! Io non posso andarmene.
- Non credo che un giorno tu non possa andartene, certo dovrai prima terminare gli studi, imparare un mestiere, e soprattutto attendere di diventare grande per poi…
- Io non voglio aspettare di diventare grande, me ne andrò prima!
Queste ultime parole, dette con una tale fermezza, mi lasciarono stupefatto. Come poteva un bambino così piccolo, esprimersi in maniera tanto decisa?
Per accertarmene ripresi il mio interrogatorio.
- Dimmi, quanti anni hai, e come ti chiami? Ma neppure questa volta ebbi risposta. Che ti succede, perché non me lo dici? Non hai proprio voglia di parlare un poco con me? 
Dopo qualche minuto, il ragazzino si alzò, fece un mezzo giro intorno alla nostra panca, dove aveva lasciato la sua cartella di scuola, vi frugò dentro ed estrasse un quadernetto nero, dopo fu la volta di un mozzicone di matita rossa a comparire nella sua mano ed iniziò a scrivere; alla fine mi porse lo scritto e in silenzio restò in attesa che io leggessi. Lo scritto procedeva prima tutto in salita, per poi scendere in picchiata verso il basso. Era un messaggio tremolante, tanto per il freddo che per l’incerta calligrafia, che diceva:
- Mi chiamo Paco, cerco un lavoro, se puoi aiutarmi dimmelo subito.
- Come, cerchi già un lavoro? Non pensi d’essere troppo piccolo per queste cose? Quando sarai grande come me, vedrai che arriverà anche il lavoro. Ora perché non mi dici prima il motivo che ti spinge a lasciare l’istituto? Non lo consideri casa tua? 
- Va bene, sbottò il ragazzino mostrando palesemente tutta la sua insofferenza, però dopo dobbiamo parlare del lavoro, si sta facendo sera ed io devo trovare un posto per dormire. Dentro non voglio tornare, lo capisci questo?
Nell’orfanotrofio ho passato nove anni! Ho imparato a leggere e piangere, a scrivere e soffrire, ma prima di tutto mi hanno obbligato ad obbedire in silenzio se volevo evitare le punizioni, e questa è la cosa che più mi ha fatto soffrire. Non ho genitori, non li ho mai conosciuti. Mi hanno detto che  qualcuno un giorno mi ha lasciato  davanti la porta dell’orfanotrofio, e si è dimenticato di tornare a riprendermi. 
- Quello che dici è triste, alla tua età non si dovrebbero avere simili pensieri.
- Lo so! E’ tutta colpa di don Ignazio, lui mi odia. Mi ha sempre odiato e mi dice che io sono il peggiore dei suoi alunni, che non studio e sono un fannullone. Ma non è vero, sono tutte bugie le sue, lo giuro. Sono sempre il primo a terminare i compiti e cerco pure di aiutare i compagni che non ce la fanno. Poi al termina della lezione, quando siamo in attesa di  uscire, don Ignazio solo a me  dice di restare, chiude la porta a chiave e mi picchia, perchè dice che deve asciugarmi le lacrime e confortarmi tenendomi stretto tra le sue braccia. É cattivo? Certe volte ho provato a non piangere, ma allora lui si arrabbia di più, mi chiama figlio di mezza calzetta e picchia più forte. E’ contento solo quando mi vede  piangere. Io lo odio! Lo odio! Le sue carezze mi fanno schifo. Capisci adesso?
Adesso ho un amico che mi difende, si chiama Giuseppe e con lui siamo d’accordo che se non mi vede uscire dalla classe insieme gli altri compagni, deve venire subito a cercarmi. Don Ignazio ha paura di Giuseppe che è grande e forte. Quest’anno però Giuseppe non potrà più difendermi, andrà a vivere in una famiglia che l’ha adottato. Ed è per questo che oggi ho deciso di non rientrare, voglio andarmene lontano, lontano da questo brutto posto. Mi cercherò un lavoro, non importa se sarà faticoso, ma me n’andrò per sempre.
I suoi occhi erano diventati due piccole fessure, lucidi e rossi come le sue orecchie. Sembrava inconcepibile come un bambino a  quell’età, portasse già dentro di sé il germe dell’odio profondo.
Paco mi guardò diritto negli occhi, poi con voce stridula esclamò:
-Tu non mi credi, vero?
Con rammarico m’accorsi che il ragazzo non riusciva a controllare i singhiozzi che lo scuotevano, e qualche lacrima di rabbia repressa già gli bagnava il viso. Adesso ero io a sentirmi confuso, tacqui mentre pensavo che a questo mondo sono sempre i più deboli, gli indifesi, a pagare le conseguenze.
Certamente Paco dovette interpretare male il mio silenzio, perché senza attendere la mia risposta mise a nudo entrambe le braccia, e venni a conoscenza delle sevizie a cui era stato sottoposto.
- Ascolta Paco, domattina io verrò a parlare con don Ignazio e vedrò di chiarire la tua situazione. Adesso devi rientrare all’istituto e comportarti normalmente come hai sempre fatto, e non dire a nessuno che ci siamo conosciuti. Intesi? Mi prometti che saprai pazientare sino a domani?
Non ebbi nessuna risposta,Paco mi guardò un istante, poi girò le spalle e si avviò verso l’orfanotrofio.
Il giorno successivo, quando mi recai da don Ignazio, questi mi riferì che non era rientrato, ma non c’era da preoccuparsi, sono cose che succedono spesso con questi ragazzi insofferenti alla disciplina. Dopo le prime avvisaglie di difficoltà, ritornano nuovamente alla madre casa. Glielo garantisco!
Ma Paco non ritornò alla madre casa, e neppure lo vidi più io.



SINDROME 




La Gelosia è una malattia curabile?  


Chi è colpito da tale sindrome, patisce seriamente nell’anima e nel corpo. L’ossessione del tradimento s’insinua nella mente come un tarlo che scava in profondità senza lasciare via di scampo, colui che ne soffre avrebbe vita meno dura se camminasse a piedi nudi sopra un letto di brace ardente.
Non sempre però i patimenti della gelosia sono giustificabili , in quanto può succedere, talvolta, che la persona sospettata di fornicare vesta i panni dell’innocenza, e nonostante ciò non sia creduta.
Se poi “accidentalmente,” intervengono avvenimenti straordinari , come in questa storia, il sospetto realmente esistente prende dei risvolti che hanno dell’incredibile. 
E’ il caso della signora in questione, capace di tradire il marito in casa propria, durante la notte, nel suo letto, senza che lo sfortunato se ne avvedesse, “o quasi .” 
A questo punto la commedia diventa farsa.


Nei primi decenni del 1900, andava sviluppandosi in Italia un nuovo movimento artistico proveniente d’oltralpe, l’Arte Déco. Questa nuova tendenza fece proseliti non solo nelle arti primarie, quali l’architettura, la pittura e la scultura, bensì anche in quelle arti minori come il ferro battuto, che divenne oltremodo richiesto.
In quel di Brianza viveva un fabbro molto rinomato per la sua estrosità e bravura, che ne comprese gli immediati vantaggi approfittando della stravaganza di questa nuova moda, che tanto entusiasmava il pubblico. Marcus era il nome del fabbro, ed il mestiere l’aveva appreso in giovane età alle dipendenze del padre Anselmo, proprietario di una fucina da oltre mezzo secolo, dove aveva trascorso tutta la vita senza mai risparmiarsi. Alla morte di Anselmo gli era succeduto il figlio, unico erede della fucina e di svariate proprietà, ma quello che più conta, dei segreti della lavorazione del metallo, grazie al vecchio genitore. Marcus era consapevole che il lavoro ad un artigiano bravo come lui non sarebbe mai venuto a mancare, come pure i clienti danarosi, perché oltre alle ottime capacità manuali era provvisto di un innato estro eclettico, che lo distingueva da ogni altro artigiano del settore. Questo fabbro era capace di trasformare un lavoro banale in forme di estrema originalità, e non pochi dei suoi lavori erano stati riconosciuti come vere opere d’arte da valenti critici. Cosicché, in breve tempo il suo nome varcò i confini della regione e s’impose nel resto del regno. Numerosi collezionisti, che avevano compreso il valore dell’arte nascente, iniziarono a farne incetta e altrettanto fecero i proprietari delle sontuose dimore signorili che a caro prezzo si contendevano le sue opere, felici di potersi vantare con amici e parenti di possedere tra le mura domestiche i lavori firmati dal maestro.
La lavorazione del ferro però non richiede solo capacità manuali ed estro. A lungo andare il faticoso lavoro alla forgia, dove si sviluppano temperature appena sopportabili, incide in maniera determinante anche sul piano fisico.  
Il nostro fabbro aveva cinquant’anni e viveva nei pressi di una piccola cittadina alle porte del comune di Erba. Alla morte del vecchio Anselmo, Marcus che gli era sempre stato molto affezionato, avvertì con profondo dolore la perdita. Si chiuse in un silenzio ostinato, trascurò il lavoro, rifiutò di alimentarsi e per settimane intere non volle uscire di casa. Il suo atteggiamento finì per preoccupare la fantesca, una bella figliola romagnola di nome Francesca, che cercava di stimolarlo con appetitose e raffinate pietanze, ma imperterrito l’uomo continuava a mantenere il suo assurdo comportamento.
 Una sera Marcus, trovandosi a passare davanti la cucina, avvertì un buon profumo che lo dirottò verso la sala da pranzo, vi entrò e dopo avere gettato una rapida occhiata alla tavola imbandita, si sedette e si regalò tutto quanto era stato sapientemente disposto dalla fantesca; al termine la chiamò e senza mezzi termini le chiese se era disposta a sposarlo. La donna, che da tempo attendeva speranzosa quella proposta, ebbe un sussulto di gioia e accettò, pregustando già il piacere di assumere finalmente l’ambito ruolo di padrona di casa a tutti gli effetti.  
Le nozze furono celebrate il venerdi del mese successivo, al termine della giornata lavorativa di Marcus, in una piccola chiesetta di campagna a lume di consunte candele e variopinti fiori di campo. I partecipanti alla cerimonia erano i pochi dipendenti della fucina e due amiche di Francesca, di cui una fece da testimone alla sposa, mentre per lo sposo era Bruno, il giovane garzone di bottega. Una cerimonia tanto modesta Francesca non l’avrebbe mai immaginata e neppure voluta, ma conoscendo la proverbiale avarizia del consorte, considerò opportuno tacere e attendere momenti migliori per vendicarsi.   
Francesca era giovane, assai piacente di viso e ancora più di corpo, e quello che maggiormente conta, di anni ne aveva appena venticinque, giusto la metà del fabbro.
Tutte le volte che la bella Francesca si recava a passeggio nella via principale del paese in compagnia di qualche amica, sapientemente scelta tra le meno appariscenti, gli sguardi vogliosi degli uomini le s’incollavano addosso, dando luogo a frasi fiorite e piccanti che l’accompagnavano lungo tutto il tragitto. Invero la pimpante romagnola non se ne dispiaceva affatto anzi, leziosa, diceva ridendo che certi apprezzamenti, frutto della bocca della verità, erano un omaggio dovuto alla sua avvenenza, un grazioso dono del Cielo.
Marcus era a conoscenza delle numerose avance fatte alla moglie, e poiché  costituivano fonte di grosso cruccio, spesso la seguiva non visto per accertarsi della sua fedeltà coniugale. 
Quando lui era impegnato a svolgere la missione di “segugio,” il lavoro nella fucina veniva affidato a Bruno, che adempiva con zelo al suo ufficio durante la prolungata assenza del principale. Un altro incarico importante affidato al giovane garzone, era quello di aprire la fucina ogni mattina alle cinque precise e d’attizzare al meglio la forgia, di maniera che all’arrivo del padrone si potesse dare subito inizio al lavoro. Di Bruno il fabbro era molto soddisfatto, sia per le capacità di apprendimento dimostrate, sia per l’impegno che riponeva nell’eseguire i lavori che gli venivano  affidati. Altrettanto contento si dimostrava Bruno, che stava con lui da quando aveva sedici anni, e ne erano ormai trascorsi dieci. In tutto questo tempo i progressi del garzone erano stati numerosi grazie al buon apprendistato nella fucina del fabbro, che dopo il matrimonio l’aveva promosso a primo aiutante, considerandolo quasi come un figlio, memore del bel rapporto avuto col vecchio padre Anselmo. 
- Certo, gli diceva il principale le rare volte che era in vena di scherzare, ne dovrai ancora macinare di strada prima di poterti considerare un artigiano finito, capace di soddisfare la buona clientela e di metterti in proprio.
Al che Bruno rispondeva sempre nella stessa maniera:
- Padrone, io mi trovo bene qui da voi, e non dimentico il grosso debito di riconoscenza che ho nei vostri confronti per avermi preso a bottega, insegnato un lavoro utile che mi piace, senza il quale non avrei potuto aiutare la mia famiglia. Mastro Marcus, vi prometto che potrete contare sempre su di me! Di andarmene perciò io non ci penso proprio, tranne che non siate voi a cacciarmi prendendomi a calci nel sedere. 
Gli elogi di Bruno inorgoglivano non poco il fabbro, che per natura era scontroso e taciturno, tuttavia non poteva fare a meno di immaginare che un giorno il suo bravo aiutante sarebbe comunque andato via, per la sua strada, e ciò lo preoccupava. A tale preoccupazione partecipava anche sua moglie con vivo interesse, la quale l’esortava a dare di tanto in tanto, qualche soldo d’aumento ai dipendenti volenterosi.
- Il danaro, gli diceva Francesca alzando di proposito la voce, fa i miracoli solo in terra, quindi non lo lesinare se ti sta a cuore la tua gente. 
Ma il bravo fabbro, già duro di per sé da un orecchio, all’occasione lo diventava  anche dall’altro. 
A sera, quando Marcus rientrava a casa, vuoi per la fatica, vuoi per l’età, il poveretto non si reggeva quasi in piedi, perciò chiedeva alla moglie di servirgli subito la cena, poi andava a dormire. Da tempo ormai Francesca viveva questa abitudine serale del marito, ma non ne faceva un dramma anzi, aveva trovata il giusto rimedio per alzargli il morale. Non appena lui varcava la soglia di casa, lei gli andava incontro sorridente, lo prendeva affettuosamente sotto braccio, s’informava del suo lavoro e insieme s’incamminavano verso la sala da pranzo, dove tutto era già servito in tavola. Mentre cenavano Francesca gli raccontava i fatti della giornata, delle persone incontrate durante la passeggiata, degli acquisti fatti per sé o per la casa. Al termine della cena poi l’accompagnava nella stanza matrimoniale, lo aiutava a prepararsi per la notte e dopo avergli augurato un buon riposo, firmato con un bacio sulla fronte, si ritirava “senza nulla chiedere o pretendere.”
Quando Marcus si addormentava, cosa che avveniva quasi immediatamente, più niente poteva svegliarlo, il sonno era così profondo che andava di pari passo con l’assordante rumore del suo russare.
Ed era questo il momento atteso dall’esuberante romagnola, che entrava nella stanza per accertarsi che il bravo marito fosse nel pieno del sonno. Allora la stanza si animava e accadeva quello che Marcus tanto temeva: l’adulterio di Francesca prendeva corpo.
Il giovane Bruno, che aveva circa la stessa età di Francesca, aveva preso l’abitudine di entrare tutte le sere quatto, quatto, nella stanza da letto attraverso un cunicolo che conduceva ad una porticina segreta del grande armadio a muro, dove veniva stipata tutta la biancheria della casa. Nella stanza il giovanotto giungeva seminudo, gli indumenti superflui preferiva lasciarli nel cunicolo per ogni evenienza in caso di precipitosa fuga, poi s’infilava sotto le coperte a fianco di Francesca e con lei restava sino all’alba, prima che suonasse l’ora di andare in bottega ad attizzare il fuoco.  
La tresca tra i due giovani amanti andava avanti da tempo, senza che il marito si avvedesse di quanto succedeva nel suo letto. Ma una notte accadde un fatto increscioso che ribaltò ogni cosa. I due amanti, sicuri del sonno profondo del fabbro,  dimentichi che la prudenza è di estrema importanza in simili circostanze, presi dalla furia della passione travolgente, non si accorsero che Bruno stava scivolando al lato opposto di Francesca, finendo di spalle addosso al principale. Marcus avvertì la presenza di un corpo caldo e credendo fosse quello di Francesca l’attirò a sé, l’abbracciò forte e…, a questo punto accadde quello che si può ben immaginare: 
>Il cacciatore divenne preda<  
Bruno capì al volo quello che gli stava per succedere, ma non potendo né divincolarsi né scappare, subì in silenzio la dolorosa violenza. 
Ma le sorprese non terminarono quella notte, al contrario. Le notti successive Bruno continuò a recarsi dall’amante nella stanza attraverso il cunicolo, e come d’abitudine a letto s’impegnava per accontentare l’esuberante Francesca. Poi, approfittando di una pausa dell’amante, fingeva di scivolare casualmente dalla parte opposta, dove trepidante e in silenziosa attesa, Marcus aspettava che “l’amico” gli cadesse tra le braccia. Ma poiché le fortuite scivolate di Bruno si ripetevano, mentre le attenzioni e i tempi per Francesca si accorciavano, lei capì che il cambiamento in corso la stava danneggiando non solo dal lato affettivo, ma costituiva un oltraggio alla sua femminilità, perciò decise di mettere le cose in chiaro.
- E’ evidente che quel furfante di mio marito finge di dormire, si disse Francesca, mentre è perfettamente cosciente di quello che è appena accaduto in questo letto. Ora,  se lui agisce così in mia presenza, è probabile che lo fa per vendicarsi dei miei tradimenti oppure, la passione per Bruno lo ha definitivamente sanato dalla gelosia che l’affliggeva. Se così fosse, non mi resta che lodare l’amore libero.  
Nel frattempo il più felice di tutti sembrava essere il giovane Bruno, che approfittava della situazione a “triangolo” che si era venuta a creare.
A sbrogliare l’intricata matassa però, ci pensò ancora una volta l’astuta Francesca. Una notte, non appena Bruno ruzzolò per l’ennesima volta dalla parte del suo compare, lei accese la lampada e li colse in flagrante. Senza scomporsi lei esclamò:
- Quello che voi due fate a me non importa, ma non ho nessuna intenzione di restare a guardare i vostri amplessi, diversamente sarò costretta a cercarmi un altro compagno. In quel caso v’informo che questo letto diventerebbe troppo piccolo per starci in quattro, quindi traetene le dovute conclusioni! E poi ditemi perché vi nascondete come se foste dei ladri timorosi d’essere scoperti? Non sarebbe preferibile fare le cose alla luce del sole insieme?
I due uomini si scambiarono un rapido sguardo e senza esitare, di comune intesa,  si scostarono l’uno dall’altro accogliendo nel mezzo la bella Francesca.






Riflessione d’obbligo. 




Questo breve aneddoto, che ad un primo affrettato giudizio può sembrare banale, considerato a distanza di tempo merita un’osservazione.
Cosa sarebbe accaduto ai protagonisti del secolo XXmo se la vicenda fosse stata resa nota? Li avrebbero condannati ad una pena severa e additati all’obbrobrio dell’opinione pubblica? E la chiesa scomunicati a Divinis?  Oppure avrebbero meritavano entrambe le punizioni? 
Forse i nostri protagonisti già sognavano ciò che oggi avviene in molti ambienti con superficialità: “agire alla luce del sole” con il beneplacito del mondo intero.
Ma per loro i tempi non erano ancora maturi!  








Il soldato Hans von Hofer

Il soldato Hans von Hofer, è un racconto a metà tra l'immaginario e una storia vera e ha vinto il terzo premio a Tonco.

 Il soldato Hans von Hofer

(Pubblico i primi 2 di 11 capitoli)



Questa storia, quasi inverosimile, avvenne in un freddo giorno del 31 dicembre 1975.
Erano le tre del pomeriggio quando decisi di uscire da casa con il mio fedele cane Dick, un pastore tedesco, per la consueta passeggiata giornaliera. Insieme avevamo l’abitudine di percorrere sempre lo stesso tragitto passando per la strada sterrata che tagliava in due, separando nettamente, la zona dei vigneti da quella degli oliveti. Tutt’intorno sparpagliate, c’erano le poche vecchie case del borgo di Santa Maria. Una sola però si trovava proprio lungo strada, ed era quella del contadino Cesare, mio grande amico toscano di pura razza dalla settima generazione, che aveva raggiunto ormai la veneranda età di ottant’anni, godeva di ottima salute e capace ancora di accudire da solo al proprio vigneto e agli animali da cortile. Per me e Dick fermarci dal buon Cesare era diventato un rito dal quale non potevamo transigere per due valide ragioni. Il primo riguardava l’eccellente Vin Santo che mi veniva offerto ad ogni sosta; il secondo interessava Dick, che immancabilmente riceveva un appetitoso bocconcino che il buon Cesare gli teneva da parte. In realtà però, tenevo a quella sosta perchè amavo ascoltare quel parlare toscano che per me era un viaggio a ritroso nel tempo, fatto di ricordi lontani e di argute battute improvvisate. Mi ritenevo veramente fortunato per essere diventato amico di quel burbero contadino che oltre a divertirmi, era a conoscenza di un “pozzo” d’informazioni storiche sul circondario. Perché bisogna sapere che il Cesare era nato nella casa dove ancora abitava e che solo una volta aveva lasciato, appena diciannovenne, quando la Patria chiamava alle armi: correva l’anno 1915.
Ciò che in particolare mi aveva sempre colpito dei “succulenti” racconti del mio amico, erano le minuziose descrizioni dei personaggi da lui conosciuti, direttamente o indirettamente, che arricchiva di fiorite esagerazioni. Una vera delizia ascoltarlo.
Il 31 dicembre, giorno d’inizio di questa singolare storia, tirava un vento di tramontana tanto gelido da mozzare il respiro perciò, uscendo di casa indossai il solito cappello di lana sdrucito ed il giubbotto imbottito che avevo ricevuto in regalo per Natale da Marta, mia moglie.
Dopo avere attraversata la strada sterrata, ci trovammo in aperta campagna in mezzo ai vigneti dai quali pendevano ancora poche foglie rinsecchite, sopravvissute agli attacchi del gelido vento invernale. L’inverno toscano lo vivo sempre con piacere, perché si accompagna a rigide giornate di freddo secco che mi permettono di fare lunghi tragitti ad andatura spedita, e solo quando sento il sangue affluire in tutto il corpo e i muscoli rinvigorire per lo sforzo, sono finalmente appagato.
Ma la vera gioia è all’arrivo della primavera, quando la natura improvvisamente cambia d’abito e diventa una grande tavolozza di colori, tonalità e sottili vibrazioni che avverto nell’aria, ed allora nasce una gran voglia di vivere e godere appieno la bellezza della campagna toscana che mi circonda. E’ un appuntamento di cui non mi priverei per niente al mondo.
Il giorno di cui mi appresto a parlare, il vento era così freddo che non invogliava a riflessioni sul paesaggio circostante, e mentre mi sforzavo di mantenere un’andatura sostenuta per arrivare al più presto da Cesare, sentivo risuonare nelle mie orecchie le ultime parole di Marta:
- Vedrai che con questo vento oggi non riuscirai a terminare la tua passeggiata. Cerca di non strafare, potresti rischiare di prenderti un malanno, e soprattutto ricordati che gli “anta” li hai passati da un pezzo.
Naturalmente non tenni conto del consiglio di mia moglie, che per quanto dicesse la verità, in quel momento ritenni offensivo; decisi perciò di prolungare la sosta da Cesare. Quando finalmente vi giungemmo lo trovammo intento a spennare una gallina nel pollaio, incurante del freddo.
- Oh dove tu vai con codesta tramontana, cittadino?
Mi apostrofò il vegliardo con il solito vocione da vecchio trombone. Lo conoscevo da vent’anni, ma lui continuava a chiamarmi cittadino per le mie originimetropolitane.
- Cesare, lo sai bene che per me il camminare significa tenere muscoli e spirito sempre pronti. Gli risposi tentando d’imitare la sua cadenza toscana. Conto d’arrivare sino al vecchio asilo di San Martino e di lì poi, tramontana permettendo, tenterò di scoprire qualche nuovo percorso interessante.
- Allora te lo fò io il tu percorso oggi, se permetti. Ascolta! Quando te tu arrivi a San Martino, lascia la sterrata e sulla tua destra vedrai un malandato cascinale abbandonato, che un tempo noi  contadini s’utilizzava per stipare il fieno per gli animali. Dietro il cascinale c’è un percorso in salita, ora certamente sarà coperto d’erbacce, te tu prendi quel sentiero e tira sempre addritto per un chilometro, vedrai un boschetto di quercini su per un poggetto, magari ora chissà quanto saranno cresciuti, rispetto all’ultima volta che ci sono passato io dieci anni fa. Attraversalo e vedrai che te tu arrivi sulla strada provinciale che dista solo una ventina di minuti da casa tua. L’è un percorso che merita, e sono certo che ti garberà, esploratore.
Mentre il Cesare spiegava, cercavo di figurarmi mentalmente il cascinale, ma senza riuscirvi. Eppure mi dissi, ho già fatto escursioni in quella zona, possibile che non l’abbia mai veduto?
- Ma quanto sarà lungo il tuo percorso, Cesare? Non ho intenzione d’arrivare sino ad Arezzo a piedi.
- Oh cittadino ascolta! I chilometri non sono mai stati misurati, né prima che io venissi al mondo, né dopo; se te tu ci vuoi provare ora per tuo piacere, io posso darti una verga lunga un metro e quando poi avrai finito te me lo dici, e così saremo i primi due “bischeri” a saperlo. Ti sta bene? Quando ci andavo io, con le scarpe da contadino grosse cinque centimetri, mi ci voleva un’ora, ma te che calzi scarpini di città…,fa conto che ti ci vorranno minimo due ore.
 Quest’ultima frase la buttò fuori in tono canzonatorio, poi cambiando improvvisamente discorso come era sua abitudine fare, continuò: 
- E se adesso ci bagnassimo un poco la gola con un buon Vin Santino, icchè tu dici?
- Finalmente hai avuto un’idea che non mi dispiace affatto Cesare, anzi direi che la mi garba un monte e ti farò quest’onore proprio per vederti soffrire, così “te tu impari,” gli risposi in tono altrettanto canzonatorio cercando d’imitare il suo intercalare.
Una fragorosa, schietta risata scaturì dalla cavernosa bocca sdentata del vegliardo a causa del mio ridicolo vernacolo toscano.
Quando lo lasciai, ebbi l’impressione che il freddo fosse aumentato, ma probabilmente era la reazione all’eccessivo caldo emesso dal grande camino a legna della stanza che, sommandosi ai sedici gradi dell’alcool, contrastava con il freddo pungente della tramontana. Quasi di corsa ripresi la strada sterrata alla ricerca del vecchio cascinale e questa volta lo trovai.
Era completamente avvolto da rovi e da  altre svariate piante rampicanti, che soffocavano le malandate pareti esterne dell’intera costruzione. Da quella fitta boscaglia emergeva, come fosse un periscopio, solo una sbriciolata canna fumaria di mattoni erosa dalle intemperie. Ci girai intorno, ma non riconobbi la benché minima traccia di sentiero che conducesse al querceto, che vidi però in lontananza. Ad aprirmi la strada in quel marasma di sterpi ed erbacce, per mia fortuna, ci pensava Dick che aveva l’abitudine di precedermi senza attendere un mio comando. Quando finalmente giungemmo al boschetto notai le tracce di due sentieri, il primo decisamente più marcato del secondo, certamente dovuto al passaggio di animali selvatici. Ero incerto su quale percorso prendere, così scelsi quello che più mi sembrava si avvicinasse alla collinetta delle querce. Procedemmo in quella direzione per una ventina di minuti, poi improvvisamente vidi che Dick si arrestò iniziando a puntare qualcosa che doveva avere percepito.
                                                           II
Era la prima volta che vedevo il mio cane assumere la classica posizione di “punta,” restando immobile su tre zampe, bocca serrata e le orecchie pronte a captare il minimo fruscio. Ad un tratto il cane si appiattì completamente a terra, poggiando la testa sulle zampe anteriori. Mi resi conto che aveva paura. Ma di cosa, mi chiesi? Sino a quel momento non avevo nè visto, nè sentito il minimo rumore. 
- Andiamo Dick, su vieni! Lo spronai a seguirmi, ma lui non si mosse, restò a guardare fisso dinanzi a sé mugolando. Allora mi avviai, certo che vedendomi partire mi avrebbe seguito, ma mi sbagliavo perché non venne e continuò ad emettere strani mugolii.
Ad un tratto, mentre ero tutto preso dalle mie riflessioni, mi sembrò di vedere in lontananza qualcuno seduto sul ciglio del poggio, in parte nascosto dal tronco di una quercia, la cui figura mi dava l’impressione che apparisse e scomparisse allo stesso tempo, come se lo facesse di proposito. 
- Sarà un cacciatore! pensai, e continuai a camminare in quella direzione deciso a chiedergli spiegazioni sullo strano comportamento del cane. L’uomo, dalla folta capigliatura bionda con la scriminatura laterale a sinistra, sedeva tenendo le braccia intorno alle gambe tirate completamente verso il busto, la testa poggiava sulle ginocchia nella tipica posizione di riposo-attesa. Lo sguardo inespressivo fisso su di me, non era dei più invitanti.
Devo dire che durante le mie escursioni, incontro spesso contadini e cacciatori ai quali mi piace rivolgere per primo il buon giorno, e poi scambiare qualche banale commento sul tempo o sulla caccia, a seconda di ciò che si tratta. Ma questa volta lo sconosciuto mi precedette con il suo germanico:
- “Entlich”! ( finalmente!)
Lo guardai sbalordito e gli chiesi nella sua lingua:
- E’ tedesco? Ha bisogno di qualcosa?  
- Ja, crazie!
Fu questa la secca risposta che mi dette. Poi si alzò dalla posizione da “contorsionista,” indossò il copricapo d’acciaio brunito, prese il mitra che aveva accanto a sé, e iniziò ad avvicinarsi.
Restai fermo, cercando d’indovinare chi fosse. Un cacciatore di cinghiali per quanto originale potesse essere, non poteva andarsene in giro con un mitra…e quell’elmo poi, che significava? Lo osservai meglio e mi resi conto che era lo stesso portato dai soldati tedeschi della Wehrmacht.
- Che io sappia in zona non ci sono campi d’addestramento militari, pensai.
Ormai mi era quasi vicino, e nel frattempo notai che indossava una divisa estiva simile a quella usata dai militari tedeschi: camicia verde chiara dalle maniche rimboccate sino all’avambraccio, pantaloni quasi dello stesso colore, ma  più scuri e stretti in stivaletti di cuoio nero. Una lunga banda di grossi proiettili appuntiti gli scendevano dalla spalla sinistra sino al ginocchio. Non appena l’uomo mi fu vicino, gli rivolsi nuovamente il mio “Buon giorno.”
- Buon ciorno a lei. - 
-  Cosa ci fa qui? Si è perso?
- Nein! Aspettavo.
- Cinghiali? chiesi incuriosito.
- No! proprio lei.
Lo guardai con un certo sospetto misto a stupore, mentre percepii velocemente il pensiero che la mia “fertile” immaginazione tentava di comunicare al mio raziocinio: questo è certamente un pazzo fuggito da qualche struttura ospedaliera.
L’individuo aveva un accento marcatamente tedesco, però parlava bene la mia lingua ed era tranquillo, il che mi rassicurò alquanto.
Preco sieda!
Disse facendomi un gesto per invitarmi a prendere posto sul ciglio del sentiero accanto a lui. Lo accontentai perché diversamente non avrei saputo che atteggiamento assumere, poi iniziò a raccontare: 
- Sono soldato tetesco, mio nome è Hans von Hofer, da molto tempo in Italia e voglio tornare in mio paese.
- Signor Hans, ma la guerra è finita da molti anni, come mai lei indossa ancora la divisa militare?    
- Io so che guerra finita, ma ora dico mia storia.
- Racconti pure! forse potrò esserle d’aiuto.
- Tutto cominciato quando ero di guardia con mio compagno Werner Brunner, molto vicino a qui. Nostro dovere era controllare strada e ponte un poco più avanti. Questo ponte  molto importante per nostri rifornimenti. Una mattina Werner è andato al ponte per prendere acqua fresca e quando lui era lì, io ho sentito un forte ”Boom” e lui kaputt.
Il rumore dell’esplosione fu accompagnato dal tipico gesto delle mani che siallargano a ventaglio  nell’aria.
 - Per molto tempo io sempre solo, nostra radio kaput e miei camerati non sono tornati a prendere me; poi ho visto tutti andare via verso nord…
- Perché scappavano! l’interruppi. Ma quando li ha visti scappare, perché non li ha raggiunti?
- Perché io non  ricevuto ordine da mio comando.
- Quanti giorni lei è rimasto nella sua postazione?
- Molto tempo! Senza acqua…senza mangiare. Dopo venuto aereo a bombardare e non sentito più rumore…, niente più fame…, niente più sete…, solo notte e grande silenzio.
Una cosa mi fu subito molto chiara: Hans era rimasto sempre nel vago nel descrivere la durata degli avvenimenti nel corso del tempo. Ebbi l’impressione che per lui gli anni, i mesi, i giorni…potevano essere espressi soltanto con la parola “Tempo.” Ma questa non fu la sola sorpresa di quell’incontro, poiché d’un tratto mi accorsi che sino a quel momento non gli avevo ancora visto muovere le labbra e nonostante ciò, colloquiavo con lui tranquillamente: stavamo comunicando in maniera rapida e veloce, telepaticamente. Com’era possibile? mi chiesi, e così fupure in seguito.
- Ed io cosa posso fare per aiutarla a tornare a casa? Perché ha detto che aspettava proprio me?
Perché io bisogno di persona che conosce mio paese e mia lingua. Qui non viene mai nessuno. Io devo restare sempre qui!
- Per quale ragione?
- Perché io sempre di guardia!
- Non capisco!
- Io kaputt! Finito!
 Detto ciò, Hans scomparve all’istante per poi ricomparire pochi istanti dopo in cima al poggio da dove m’indicò con l’indice, un punto preciso del terreno.
Non credevo a ciò che vedevo, e la cosa divenne ancora più inverosimile, quando lo vidi scendere nella mia direzione attraversando i tronchi delle querce, e dopo ci  ritrovammo nuovamente seduti l’uno accanto all’altro. Sentii il sangue raggelarsi nelle vene mentre un forte tremore mi assalì. In quel momento ero solo in grado di capire d’essermi imbattuto in qualcuno, o qualcosa, di straordinario. Avrei voluto allungare la mano per palparlo, verificare la sua consistenza “corporea,” se mai ci fosse, ma non osavo. Però capii che quello sparire, per poi ricomparire in cima al poggio dopo qualche istante, era stato fatto con uno scopo ben preciso: lui voleva rendere chiara ai miei occhi la sua natura irreale, senza la necessità di aggiungere ulteriori spiegazioni. Ero impietrito dallo spavento, la lingua mi si era seccata in gola, eppure…, eppure gli stavo seduto accanto, e lo vedevo.
E se fosse uno scherzo della mia fantasia “surriscaldata”? pensai. Avevo sempre fantasticato, durante le mie passeggiate solitarie, d’incontrare qualche personaggio particolare, un Elfo dei boschi ad esempio, che riottoso si nasconde alla vista dei passanti. Ma questa forma irreale, sbucata improvvisamente dal nulla, armata di tutto punto, era ben lungi dal somigliare all’innocuo Elfo della mia fantasia. 


Se ritenete interessante questo lavoro,contattatemi per ricevere il racconto completo al vostro indirizzo di posta elettronica.


Gli scalini che portano in cielo

Pubblico il racconto inedito scritto nel Dicembre 2010 dal titolo "Gli scalini che portano in cielo ". Questo racconto è stato presentato al 28° premio Firenze e ha ottenuto la Segnalazione d'Onore.Inserisco il link al video della premiazione ricevuto a Palazzo Vecchio a Firenze il 4/12/2010  



GLI SCALINI CHE PORTANO IN CIELO.

Eli, Eli, lamma sabacthani ?



Li avevo contati tutti, uno per uno, quegli stramaledettissimi scalini che ammontavano all’iperbolico numero di 363.203, ed erano anche più alti dello standard di casa nostra. Quando finalmente giunsi alla sommità, mi trovai davanti una porta chiusa, fuori ogni misura in altezza, mentre la ridotta larghezza avrebbe lasciato passare una persona solo di traverso, di tre quarti per intenderci. Sapevo che quella era la mia meta finale e che lì dovevo entrare, ma ero estenuato. Le poche forze che mi erano rimaste le utilizzai tutte per sedermi in terra, davanti all’ingresso di quella strana porta, e attesi. Quanto? Difficile da dirsi, ma certamente un tempo che mi sembrò un’eternità, ed incominciai a riflettere.

- L’è mai possibile che dopo una simile faticaccia non ci sia nessuno che ti riceve, che si prenda cura di te? Non si vede anima viva neppure a pagarla a peso d’oro! Ho rischiato un infarto e nessuno che t’offre un bicchiere d’acqua, magari fresca e frizzante come piace a me. L’è incredibile constatare come l’ignoranza di questi tempi la faccia da padrona ovunque ti giri. Mi chiedo di codesto passo indo s’andrà a finire? Ch’educazione l’è codesta? L’è tutto da principiare!

Con estrema fatica riuscii ad alzarmi e altrettanta fatica mi ci volle per battere alcuni colpi alla porta, dapprima con moderazione poi, visto che nessuno si degnava d’aprire, lo feci ripetutamente non solo con le mani, ma anche con i piedi. Nonostante ciò, la porta restò chiusa e un dubbio mi assalì: vuoi vedere che l’apriranno solo al prossimo Giubileo? A quel punto, vincendo ogni timore, incominciai a vociare e imprecare:

- Maremma boia, che storia birbona l’è codesta? Vi sembra sia il modo giusto di ricevere la gente perbene costì? Oh porca maiala zozza! Un’ so abituato a vociare, ma quando mi si costringe a farlo lo fo per davvero, un’ ciò peli sulla lingua io.

Nel frattempo mi guardavo intorno e solo allora mi accorsi che di lato alla porta c’era una grossa campanella dorata, luccicante come il sole.

- E codesta campanella da indo’ salta fuori? Prima un’c’era! lo posso giurare su tutti i santi, e in buona fede. Vorrei sapere chi l’è il birbaccione che mi sta prendendo per i sacri fondelli? Indove ti nascondi, oh sacripante? Questi scherzi stupidi li fanno solo al Luna Park per incantare i bamboccioni della domenica, e quelli come te.

A questo punto misi il dito sulla campanella e non lo staccai più per una buona mezz’ora.

- Qualcuno la sentirà e si deciderà di venire ad aprire, perchè io non smetterò di suonare finché un’mi sarà aperta codesta porta. Quel bischero del portinaio se non viene subito, rischia la perdita delle su’ trombe d’Eustachio. E quando apre mi dovrà dare delle spiegazioni esaurienti, e non i soliti farfugliamenti da grullo.

Al posto del preposto invece, sulla porta comparve una scritta luminosa a intermittenza con grosse lettere cubitali di colore rosso e verde, che informava:



COMPLETO.



Dopo qualche minuto anche la scritta scomparve, malgrado io continuassi insistentemente a scampanellare.

Alla fine, stanco e demoralizzato per tale incivile accoglienza, mi sedetti nuovamente sullo scalino a guardare il lungo percorso a ritroso che mi attendeva rifare, e così mi accorsi che in basso alla scalinata, giù, proprio giù all’inizio di essa, c’era una lunga fila di persone in attesa di salire. Mi venne spontaneo sorridere, perchè già immaginavo il disappunto e il coro d’imprecazioni che ne sarebbe scaturito al loro arrivo trovandosi davanti la scritta luminosa: COMPLETO.

Osservando con maggiore attenzione però, mi accorsi che la moltitudine di persone in basso restava ferma sempre nello stesso posto, e non dava alcun segnale di volere salire. Purtroppo la distanza che ci separava era tale da impedirmi di capire se stessero parlando e cosa si dicessero.

- Che strano, dissi, icché aspettano? Chi li ritiene? Di certo ci deve essere stato qualcuno di buon senso che deve averli informarti per tempo che qui è tutto completo. Comunque, ne’mi confronti una tale delicatezza nessuno l’ha avuta. Quando c’incontreremo, voglio proprio chiedere qual’è stata la fonte della loro informazione.

Con tale proposito in testa mi accinsi a scendere i miei 363.203 scalini, ma non appena misi il piede sul primo, vidi che le persone ora si stavano muovendo a frotte in senso inverso al mio, trasportati comodamente da un tapis-roulant.

A quella vista il mio stupore fu enorme e infuriato scivolai nelle stesse imprecazioni di prima, concludendo:

- Allora l’è proprio vero che ce l’hanno tutti con me! Mi considerano proprio un imbecille, un niente insomma! Ma questa è vera ingiustizia. Vorrei sapere sotto quale colore politico si nascondono tutti codesti raccomandati, e chi l’è il loro portabandiera? Verdi, rossi o grigi! Perché oggi, come ieri e domani, se devi sfamare la tu’ famiglia ti devi rivolgere ad un politico, a uno di quelli che contano. Purtroppo io di questi “signori” non ne conosco punti, e perciò mi ritrovo sempre con un pugno di mosche in mano, e tutto a causa del mi’maledetto orgoglio personale.

Nel frattempo il tapis-roulant avanzava con celerità e i primi personaggi che iniziarono ad arrivare, mi passavano davanti sorridendomi con sufficienza, ed allora colsi subito l’occasione per sferrare l’attacco:

- Oh gente dite un po’, a quale parrocchia appartenete voi? Come mai v’è stato riservato un simile trattamento di favore, mentre un poveraccio come me s’è ciucciato tutti i 363.203 scalini a piedi?

- Perché tra te e noi c’è una bella differenza, e poi noi si è atteso il momento del Cambio, mi fu risposto.

- Ma di che cambio andate ciancicando? E come avete fatto a sapere quando era il momento di questo stramaledetto cambio?

- Te continua a salire e scendere una, due, tre, cento volte su e giù la scala del perdono, e vedrai che prima o poi arriverà anche per te il turno buono.

- Ma iché vu dite, un’sarebbe più semplice e conveniente di passare direttamente dalla vostra parte e risalire insieme a voi? Mi metterei in fondo alla fila, magari per ultimo, lì un posticino libero di sicuro ci sarà ancora. Un’vi pare che c’ho ragione?

- Che te sei furbo, oh fiorentino! rispose di rimando un brutto livornese col naso torto. Perché non ci chiedi pure di scambiarci con te. Oh grullo, per chi c’hai preso? Noi la faticaccia la s’è fatta in salita come pure in discesa, zitti, boni e nei tempi giusti; mentre te stavi comodamente seduto in poltrona a girarti i pollici, davanti i’tu bel televisore a colori a vedere le partite e il giro d’Italia.

- Ascoltatemi bene, dissi a quello che mi sembrava il classico attaccabrighe, io non pretendo il posto di nessuno, ci mancherebbe altro che questo. Anzi ti specifico, che se te tu me lo dessi, io un’ l’accetterei perché te tu sei livornese, ed io con i livornesi non ci sto per principio, e un’ tratto mai. Il tu posto l’è in serie B, ve lo siete meritato e là ci dovete rimanere in eterno, e Amen! Vu’ c’ avete una linguaccia pepata sempre pronta a criticare il prossimo e poi te in particolare, mi sei formalmente antipatico e te lo metto anche per iscritto, se tu voi. L’è chiaro i’mi concetto? Serie B!

Un coro di risate fece eco alle mie parole, mentre quella brutta pellaccia di livornese a capo chino, e rosso in volto, s’allontanava alla mia vista.

- Rifai la scalinata, intervenne un altro in tono cordiale che subito mi piacque.

- Come, nuovamente? Ma gli scalini sono tanti, una vera sfacchinata. Io credevo che una volta fosse sufficiente! e poi un’ c’ho allenamento…,un’ce la fo proprio, credetemi.

- Invece la devi rifare, così come abbiamo fatto tutti noi, tante, tante volte finché sulla porta in alto non comparirà la scritta LIBERO. Solo allora potrai salire comodamente, come stiamo facendo noi che siamo i premiati, per l’ultima volta. E sarà così anche per te! Quando la porta si aprirà e avrai libero accesso, ti sentirai al riparo nel rifugio dorato. Da quel momento tutte le tue angosce, morali e fisiche, ti saranno risparmiate per sempre.

Nel frattempo il tapis-roulant continuava ad andare, trasportando quei personaggi inespressivi, simili a marionette, che rimpicciolivano sino a diventare puntini nella nebbia.

D’improvviso un boato assordante squarciò quel silenzio irreale, la scala iniziò un movimento sussultorio-ondulatorio, come se fosse sopraggiunto il terremoto ed io, in preda al panico, tentavo disperatamente di mantenermi in equilibrio alla maniera dei funamboli. Istintivamente cercavo un appiglio che non c’era, e già mi vedevo ruzzolare giù per i 363.203 scalini. Fortunatamente il movimento cessò prima della mia rovinosa caduta, ed allora una voce profonda si fece sentire:

- Sali cento volte la scalinata e sarai giunto a me!

- Cento volte!? E’questo dunque il prezzo che mi si richiede per mondare i miei peccati? Il massimo della pena, insomma! Ma siamo proprio sicuri che sono tanti, tanti, tanti i mi’peccati? Un’ c’è pericolo di confondermi con quarcheduno che s’è comportato da vero birbaccione?

Un’ voglio fare nomi, ma costì c’è un livornese di mi’ conoscenza che un’mi garba punto. Maestro per favore, guardate bene nel vostro Libro Mastro, che l’è vecchio di quarche secolo, perchè un errore vi sarà scappato di certo. Sbagliare l’è umano, un’ vi pare ?

Avevo appena terminato i mi’ bel discorsetto, che mi resi conto d’avere pasticciato nei confronti del Maestro, e per rimediare ritornai subito ai miei piagnistei:

- E poi io un’ce la fo’ a salire, scendere e risalire tante volte la scalinata come voi volete. Un’ c’ho il fisico adatto! Oh via, cercate di capirmi!

Però in tutta sincerità Maestro, devo dirvi una cosa. C’ ho l’impressione che vu’ avete perso un poco il controllo sulla realtà del mi’ mondo!

Se così non fosse, non stareste a sciupare il vostro tempo ossessionando noi poveri mortali con questo vai e vieni, su e giù per le scalinate. Noi tutti i giorni s’ha problemi seri d’affrontare, problemi come la Miseria, l’Ingiustizia, la Sofferenza. Patimenti assillanti che sopportiamo vita natural durante. Un vero stillicidio, credetemi! E tutto questo per una mela rubata nel vostro giardino? Rubata perché l’è stata messa di proposito. Ma se già eravate a conoscenza delle debolezze umane, a che serviva quella prova finale? E’ stata una disobbedienza pagata a caro prezzo, in fondo si trattava di una semplice bischerata, un gioco di ragazzi annoiati. La mi' povera mamma, pia donna che amava tutti i santi senza alcuna distinzione, quando mi beccava co'l dito dentro il barattolo di marmellata di ciliegie, la mi' preferita, mi urlava perchè sapeva che'l mi' dito l'era di molto sudicio. Allora s'iniziava il gran carosello intorno al tavolo di cucina, io davanti co'l mi' dito ficcato nel barattolo, e la mi' mamma di dietro pe' acchiapparmi. E si rideva a crepapelle. Però mai ha pensato di scacciarmi. Mai!...Mai! E poi, che ci faceva costà il viscido, se il suo posto era agli Inferi? Una volta abbandonati al nostro destino, le conseguenze sono state drammatiche. Ci volevate migliori e invece siamo peggiorati. Tutto sommato sulla terra Voi ci siete rimasto solo trentatre anni, inchiodato sulla croce dall’ora sesta alla nona, e come ricompensa avete ricevuto il massimo dei premi, il più ambito: l’ETERNITA’ e L’ARBITRIO.

Non vi sembra che per un periodo di tempo così breve, la ricompensa sia stata eccessiva? E non vogliamo chiamarla ingiustizia codesta? Cosa sono poche ore di sofferenze, sapendo in anticipo che dopo arriva il supremo dei riconoscimenti?

Guardate un po’noi! Siamo simili a dei soldati votati ad una sconfitta certa, ciononostante continuiamo a combattere per prolungare l’agonia di quarche giorno, magari solo di un’ora, pur sapendo che la ricompensa un’è il meritato premio che ci vogliono far credere, ma piuttosto un’interminabile, faticosa scalinata. Che poi resta da vedere quello che succede se un’si riesce a farla tutta; vedi un povero bischero come me.

Se si potessero mettere sui piatti di una bilancia i vostri ed i nostri meriti, un’ho dubbi da quale parte penderebbe l’ago. E voi?

Riflettete!...Riflettete!

A questo punto fui preso da altri pensieri: cercavo di sommare i 363.203 scalini un paio di volte, non di più, e subito mi resi conto che la cima del monte Everest sarebbe stata meno difficile da scalare. Una semplice passeggiata insomma.
  


Il Rebus Dédé Vitali

 In una fredda mattinata di gennaio, viene rinvenuto un cadavere chiuso in un sacco di juta nel Boulevard Saint Michel, a Parigi. Incaricato delle indagini è il commissario Luc Lefevre del XII arrondissement. Per seguire le indagini, il poliziotto è costretto a fare la spola tra la Francia e l’Italia. A causa delle distanze e dei numerosi personaggi da interrogare, i risultati sono lenti, cosa che indispettisce i suoi superiori. Ma Luc Lefevre non ha mai rinunciato ai suoi incarichi… 

Il Rebus Dédé Vitali 

Chiunque si fosse trovato a passare dinanzi al giardino del Luxembourg la notte del cinque gennaio, avrebbe giurato d’aver visto aggirarsi dei fantasmi. Ma quelle figure erranti, silenziose, non avevano nulla a che vedere con l’aldilà anzi, volendo, sarebbe bastata qualche martellata ben assestata per abbatterle.
Le “spettrali sagome” avvistate, erano le statue di marmo che abbellivano il parco del Luxembourg, sulle quali durante la notte si era depositata una spessa coltre di neve.
Sin dalle prime ore del pomeriggio era incominciata a cadere la neve sulla città, dapprima lentamente poi sempre più fitta, ricoprendo in poco tempo strada e marciapiede sino ad uniformarli. Automobilisti prudenti avevano parcheggiato in tempo le auto a lato della carreggiata, mentre i più temerari, nel tentativo di proseguire la corsa verso la loro meta, le avevano abbandonate non appena la tormenta di neve si era intensificata. In più punti  la strada risultava ostruita. Dai numerosi comignoli delle case, si alzavano colonne di fumo bianco che si dissolvevano rapidamente a contatto col gelido vento; sui contenitori dei rifiuti degli esercizi notturni, la coltre bianca era meno voluminosa che altrove a causa dell’ora tarda in cui erano stati lasciati. Mancavano ancora due ore al prelievo della nettezza e la tempesta sopra una Parigi addormentata, sarebbe stata ricordata anche per un altro drammatico episodio.
La mattina del 6 gennaio 1989 i netturbini trovarono un voluminoso e pesante sacco di plastica nera accanto a quei contenitori e quando tentarono di alzarlo, assunse una strana forma che li insospettì. Gli uomini capirono che dentro ci doveva essere qualcosa di diverso dai soliti ingombranti rifiuti, lo aprirono con cautela e fecero un’agghiacciante scoperta.
André Vitali, o più semplicemente Dédé, era il nome che il Commissario Luc Lefèvre del XII arrondissement, aveva letto sul documento rinvenuto addosso al morto rinchiuso nel sacco. L’uomo, sessantacinque anni d’età, di media statura, prima d’essere “insaccato” era stato strangolato con una calza di nailon. Un cappio al collo gli teneva strettamente legate le mani ai piedi dietro la schiena. Dopo essere stato ficcato in un robusto sacco di iuta, l'avevano rinchiuso successivamente in quello di plastica nero. Era la prima volta nella lunga carriera del poliziotto che gli capitava di trovare un cadavere legato in quella maniera, una messinscena inconsueta a Parigi e forse anche in tutta la Francia. Poi si ricordò che molti anni addietro un caso simile l’aveva già visto a Marsiglia. Questo tipo di esecuzione, che viene chiamata “ incaprettamento,” provoca una lenta morte per strangolamento. La sofferenza indicibile cui la vittima viene sottoposta è lo scopo principale che si prefigge questo tipo d’assassinio, decretato da un capo mafia dopo aver subito un grave affronto da un affiliato: generalmente una delazione, o per una mancanza di rispetto nei confronti della donna del Boss.   
Ad un sommario accertamento sul cadavere dell’uomo, non si notavano in nessuna parte del corpo né ferite né contusioni, perciò era da supporre che fosse stato eliminato da una persona della quale la vittima si fidava, oppure conosceva bene.
Queste furono le prime conclusioni cui pervenne il Commissario Lefèvre in quella fredda alba del 6 gennaio nel Boulevard Saint Michel. Ad ogni buon conto bisognava pazientare ed aspettare gli accertamenti dell’autopsia riguardo l’ora e il giorno del decesso. Ma la dichiarazione che ebbe dai netturbini, gli parve molto interessante. Questi affermarono che la quantità di neve che si era posata sul sacco, aveva uno spessore esiguo rispetto a quella dei contenitori vicini, perciò sicuramente doveva essere stato lasciato nelle primissime ore dell’alba, e non molto prima del loro arrivo.
Facendo una sommaria valutazione tra la differenza di centimetri di neve al suolo con quella “approssimativa” caduta sul sacco, il commissario concluse che si poteva determinare un orario abbastanza vicino a l’ora dell’abbandono del cadavere. Interrogando i vari gestori degli esercizi pubblici in funzione durante quella notte, si ebbero altre informazioni utili per dare seguito alle prime indagini. Ma Lefèvre era un poliziotto sagace che la sapeva lunga riguardo ai cadaveri, ne aveva visti tanti, forse anche troppi durante la sua carriera, assassinati nei modi più strani ed atroci che nemmeno il più fantasioso e spregiudicato regista di horror sarebbe mai riuscito ad escogitare. Molti di questi omicidi cosiddetti “speciali ” perché irrisolti, difficilmente venivano portati a conoscenza dell’opinione pubblica in tutta la loro brutalità, non solo per non impressionare la gente, quanto per non influenzare emulazioni in menti distorte. Se l’assassino veniva scoperto, si preferiva evitare di scendere in particolari; viceversa, se non lo si trovava, si archiviava il caso e la stampa veniva informata dello stretto indispensabile. Nel distretto del Commissario Lefèvre, non erano molti i casi archiviati perché lui in realtà l’archivio lo portava sempre con sé stampato nella mente, pronto a scattare al minimo indizio, alla prima traccia riconducibile al caso. Tre erano le coordinate della tecnica di riferimento sulla quale si basava il suo metodo d’indagine: tempo, intuito e coincidenze. E lui sapeva che il tempo non sempre volge a favore di un assassino poiché questi, prima o poi compie il fatidico passo falso. Ciononostante c’era un caso per così dire particolare, che ancora dopo molti anni Lefèvre non era stato in grado di risolvere, sebbene quell’indagine non gli appartenesse essendo il fatto successo a Marsiglia. Per pura casualità però n’era rimasto coinvolto, diventando un vero e proprio rompicapo nella sua vita quotidiana. Gli sembrava di giocare una partita a scacchi contro un avversario sgusciante, invisibile, capace di prevenire le sue mosse per tempo, e ciò lo attraeva. Si augurava di riuscire prima o poi, ad entrare nella logica di quell’assassino intelligente e temerario, e di agguantarlo prima della fine del suo mandato di commissario di polizia, di lì ad un anno.
Il fatto era accaduto 12 anni prima a Marsiglia. Lefèvre ricordava ancora molto bene la mattina in cui il commissario capo gli aveva telefonato, per chiedere delle informazioni su un cadavere trovato strangolato e legato in maniera inconsueta in un sacco di tela nei pressi della stazione della sua città. Il cadavere aveva indosso portafogli, danaro e come documento una tessera dell’ordine degli antiquari, dalla quale erano risaliti subito all’identità dell’uomo: un certo Jacques Lebrain, parigino di 70 anni.
- Quello che vogliamo sapere, disse il commissario marsigliese, è la certezza che il documento appartenga realmente al morto e che non gli sia stato messo indosso di proposito per condurci su una falsa pista. Nell’eventualità fosse realmente l’uomo del documento, avremmo bisogno di notizie dettagliate sulla sua attività professionale, se fosse del tutto pulita e sulla cerchia di persone che abitualmente frequentava.
- Va bene, gli aveva risposto Lefèvre, faremo il possibile per raccogliere ogni sorta di informazione attinente al soggetto e non appena saranno pronte, verrò io stesso a consegnarvele.
Due giorni dopo Lefèvre rimetteva nelle mani del collega di Marsiglia un dossier dettagliato sull’antiquario del quale, pur avendo una fedina penale pulita, erano venuti a sapere che all’occorrenza non disdegnava di acquistare opere d’arte ricettate, per poi disfarsene il più rapidamente possibile. L’uomo aveva un suo giro di clientela danarosa e senza scrupoli, che si dileguava velocemente a transazione conclusa. Nonostante le soffiate anonime che la polizia aveva ricevuto, non erano mai riusciti ad incastrarlo al momento giusto. Dal sopralluogo effettuato da Lefèvre con il collega marsigliese nell’abitazione di Jacques Lebrain, risultò evidente che qualcuno doveva averli preceduti molto discretamente, poiché nell’appartamento tutto risultava in ordine. Ma un errore il ladro l’aveva pur commesso! Dopo avere staccato un quadro dalla parete, aveva tentato maldestramente di ripulire il segno della cornice sulla tappezzeria della parete, lasciando così le sue impronte. Immediatamente scattarono le ricerche nel casellario giudiziario per accertare a chi appartenessero, ma fu solo una inutile perdita di tempo.
Il ladro non risultava schedato.  
Certamente si era trattato di un furto su commissione, poiché quel quadro sembrava l’unico ad essere stato trafugato. Ma la domanda principale da porsi era un’altra: il furto è avvenuto prima o dopo l’omicidio? Poiché, nella prima ipotesi, si poteva supporre che l’unico obiettivo del ladro fosse solo appropriarsi dell’opera e poi dileguarsi. La ragione della mancata denuncia del proprietario era ovvia: si trattava di un’opera ricettata che necessitava di passare sotto assoluto silenzio. Mentre invece, se il furto fosse stato commesso dopo l’omicidio, probabilmente il ladro aveva premeditato con fredda e lucida determinazione anche l’eliminazione dello scomodo testimone, cioè  l’antiquario, che doveva avere un appuntamento con il suo cliente-assassino.   
Quando a Marsiglia furono presentate le foto “dell’insaccato” a Lefèvre, questi ammise che era la prima volta che vedeva un crimine tanto efferato, una vera esecuzione in piena regola.
Il commissario parigino si trattenne circa una settimana a Marsiglia per collaborare con il collega nelle ricerche, ma ogni sforzo fu inutile. Poi venne richiamato a Parigi e tutto rimase nelle mani dei marsigliesi, che neppure nel corso degli anni successivi progredirono nelle indagini, ed il caso venne così archiviato.
La fatalità volle che a distanza di tanti anni si commettesse un simile misfatto, con le stesse modalità a Parigi, e questa volta toccò a Lefèvre occuparsene in prima persona.
Il cadavere del boulevard Saint Michel però, presentava una differenza sostanziale con quello marsigliese, che era stato strangolato lentamente a causa della corda al collo come prescrive la legge della mafia; invece quello trovato nel Boulevard Saint Michel era stato prima strangolato con una calza di nailon lasciatagli annodata al collo, e solo in seguito era stata simulata la messinscena dell’incaprettamento. Mettendo a confronto le personalità dei due antiquari, Lefèvre riscontrò degli elementi che li accomunavano: i due malcapitati oltre che esercitare la stessa professione, erano celibi e vivevano da soli. Ciò li rendeva soggetti più vulnerabili da avvicinare ed eliminare, poiché privi di testimoni familiari che potessero fornire informazioni utili alla polizia, che certamente  avrebbe iniziato così a indagare tra i clienti e frequentatori abituali degli antiquari. 
La macabra esecuzione portava con certezza la stessa firma di Marsiglia, come pure il movente, che certamente anche in questo caso riguardava il furto di un’opera d’arte.
Se la mafia “vera” fosse stata implicata nel furto di un quadro, per quanto importante potesse essere l’opera, di sicuro non sarebbe ricorsa a quel genere d’esecuzione riservata solo ai traditori e agli spioni, pensò il poliziotto. Perciò la cosa gli sembrava poco credibile.
 Per abitudine Lefèvre incominciò ad analizzare le convergenze di questi elementi punto per punto, poi passò a far visita agli antiquari di Rue de Rivoli per accertarsi d’eventuali rivalità nella loro professione. Così venne a sapere che il Vitali, stranamente, aveva sempre grosse disponibilità di danaro liquido, anche nei momenti di maggiore crisi nel settore. E ancora, che Dédé aspettava proprio i momenti di crisi per speculare sull’acquisto di opere importanti a spese dei colleghi in difficoltà. “ Era un vero strozzino!” sentenziarono all’unanimità i commercianti. Da dove attingesse tanta liquidità di danaro erano in molti a chiederselo, probabilmente ci doveva essere qualcuno alle sue spalle che interveniva nei finanziamenti, ordinando pezzi mirati.
Lefèvre accertò che il Vitali era italiano naturalizzato francese, da circa trent’anni viveva a Parigi e parlava molto bene la lingua d’adozione.      
Quindi, pensò il commissario, rivalità e gelosie potevano benissimo essere il denominatore comune che avevano innescato l’odio verso Dédé, sino ad indurre qualche disperato a commettere l’omicidio. Ma perché mai organizzare una messinscena tanto laboriosa se un semplice proiettile sparato da una pistola, magari munita di silenziatore, poteva risolvere agevolmente la faccenda senza doversi sobbarcare il disturbo di trasportare un fardello tanto pesante per le vie della città, con il rischio d’essere facilmente notato?
Il pacco con il cadavere del boulevard Saint Michel dava l’impressione d’essere stato “confezionato” da mano esperta. Un professionista del crimine? Pensare che più antiquari di Rue de Rivoli si fossero messi d’accordo per assoldare un killer gli sembrava piuttosto azzardato; d'altronde, scandagliando nei trascorsi dei commercianti non erano emersi fatti di rilevante importanza. Erano persone apparentemente rispettabili con alibi inoppugnabili nel giorno del delitto, perciò Lefèvre decise di escluderli dalla lista dei sospettati, almeno per il momento. Il giorno successivo egli si recò nell’appartamento del Vitali al N°211 del Boulevard Saint Germain per un sopralluogo, alla ricerca di qualche traccia che lo mettesse sulla giusta pista. La casa era piena di quadri d’epoca che Lefèvre ritenne degni d’essere esposti nei musei, compreso il Louvre. Il Vitali era un antiquario specializzato solo in opere pittoriche che datavano dal XVI al XIX secolo. Che fossero tutte originali, questo non poteva stabilirlo a causa delle sue modeste conoscenze amatoriali, però le trovò egualmente magnifiche e più di una volta riuscì, con sua grande soddisfazione, a riconoscere il secolo e persino l’autore, e comprese che in quella casa c’era un vero tesoro.
Man mano che procedeva di stanza in stanza, estasiato per quello che i suoi occhi potevano ammirare, arrivò nello studio dove notò subito sopra la scrivania un’agenda aperta dove, in una pagina tutta bianca, campeggiava solo la lettera “P, ” con un numero di telefono di cinque cifre senza intestatario, poche per linea di Parigi. Continuando a sfogliare, vide che vi erano annotati svariati nominativi di persone con i relativi numeri telefonici. Decise di portare la rubrica con sé per un esame approfondito, e mentre la stava riponendo in tasca, scorse per terra un foglietto di carta forse destinato a finire nel cestino. Lo raccolse e si accorse che era in bianco, ma nel rigirarlo controluce comparvero alcune tracce di uno scritto precedente. Allora si sedette comodamente e con la massima accortezza passò delicatamente la mina di una matita su quella traccia appena visibile, dove comparvero in negativo le stesse cifre del numero segnato alla lettera “P”della rubrica e con sua grande sorpresa, anche un prefisso telefonico internazionale che riconobbe essere quello dell’Italia.
- Perfetto, esclamò Lefèvre soddisfatto, forse ora incominciamo a segnare qualche punto a nostro vantaggio.
Non gli ci volle molto tempo per ottenere nome ed indirizzo del proprietario di quel numero di telefono, che risultò appartenere alla città di Venezia. Non appena ebbe terminato, scese in portineria a interrogare la portiera dello stabile, Madame Marie Clotilde.
- Mi dica Signora, quando ha visto per l’ultima volta il suo inquilino?
- Ieri mattina alle sette precise. Ricordo bene l’ora perché è il momento del ritiro dei contenitori dei rifiuti.
- Ma il Signor Vitali usciva sempre così di buon’ora?
- No, mai! Normalmente andava via da casa alle nove, per aprire il negozio alle dieci,  diceva che acquirenti mattinieri non ne aveva mai visti in tutta la vita, perciò era preferibile sfruttare le prime ore del mattino per una bella passeggiata, che gli poteva fare solo bene. Perciò quando ieri ci salutammo, fui sorpresa di vederlo già in strada, e  disse che stava aspettando un taxi. Allora ne approfittai per chiedergli se quel giorno potevo salire a riordinare l’appartamento un pò più presto…
- E lui cosa le rispose?
- Mi disse…, aspetti… ah! Sì, ora ricordo: “Ma chère Cloclo, anche lui mi chiamava così come tutti gli altri inquilini dello stabile, la lascio padrona del campo sino a questa sera tardi. Sì! disse proprio così.
- All’arrivo del taxi, lei era presente? Ha visto se aveva bagaglio con sé, magari una semplice ventiquattr'ore?
- Non portava assolutamente niente! Aveva entrambe le mani nelle tasche del soprabito. Sa, a quell’ora l’aria “frizza.”
- Lei prima ha detto che lo accudiva nelle faccende domestiche, era una incombenza quotidiana oppure saltuaria?
- Tutte le sacrosante mattine Signor Commissario, tranne naturalmente la domenica, perché è il mio giorno di riposo. Grazie a Dio i sindacati dei lavoratori si sono ricordati che esistiamo pure noi. Salivo a riassettare l’appartamento del Signor Vitali dopo le nove, non appena lui passava davanti alla mia guardiola, sempre alle nove precise. Non mi ci voleva molto, con questo non intendo dire che io lo trascurassi per andarmene via prima, mi creda questa non è una bugia Signor Commissario. Il fatto è che lui non voleva che io spolverassi i quadri, ma proprio nessuno, a quelli preferiva pensarci personalmente. Viveva da solo e non riceveva molte visite, perciò di tempo gliene avanzava fin troppo per spolverare.  
- Ieri sera lo ha visto rientrare?
- No! perché deve essere rientrato dopo le otto, ed io come le ho detto, termino il servizio proprio a quell’ora.
- Ah! Capisco, certo! E mi dica un’altra cosa, il Vitali durante la settimana, dopo la chiusura del negozio, a che ora tornava a casa per il pranzo? 
- Non tornava affatto! Preferiva servirsi del ristorante. Raramente è successo che io gli abbia dovuto preparare una pietanza, e questo succedeva solo quando l’influenza lo inchiodava a letto. Malgrado il suo aspetto mingherlino, godeva di ottima salute. Che brava persona però il Signor Vitali!
- Un’ultima domanda Madame, ieri mattina quando è salita nell’appartamento per il solito riordino, ha notato per caso se mancasse qualcosa, o se ci fosse stato qualche cambiamento insolito? Che so, lo spostamento di un oggetto dalla sua abituale sistemazione o altro?
- Tutto era al suo posto come d’abitudine e niente mancava. Dopo vent’anni che mi occupo di quella casa, ormai la consideravo come mia, stia pur certo che se ci fosse stato un cambiamento o la mancanza di un semplice oggetto, me ne sarei accorta non appena varcata la soglia. Il Signor Vitali è sempre stata una persona abitudinaria e tanto ordinata, non avrebbe lasciato neppure un pezzo di carta fuori posto. Era un così bravo uomo, un vero signore. Mi mancherà molto, mi creda.
- Madame, lei aveva accesso a tutte le stanze?
- A tutte tranne lo studio, o per meglio dire il “santuario,” come scherzosamente io l’avevo soprannominato.
- Come mai? Non era tenuta a pulire anche quella stanza?
- Certo che sì! una volta per settimana, il lunedì, e solo in sua presenza. Forse lei avrà notato, Signor Commissario, che nello studio ci sono quadri dappertutto, molto belli e di grande valore. Quando arrivava il lunedì, era lui che mi diceva quello che potevo e dovevo fare che poi, per dirla in breve, si trattava solo di passare l’aspirapolvere e vuotare il cestino delle carte, e sempre sotto stretta sorveglianza.
Prima di lasciare la portiera al rammarico per la perdita di un inquilino tanto prezioso per la sua entrata extra, Lefèvre si fece consegnare la seconda chiave dell’appartamento poi, lemme lemme, si avviò lungo la Senna riflettendo che durante tutto il colloquio Madame Cloclo, aveva continuato a parlare del Vitali rigettando inconsciamente la sua tragica fine. Dopo tutti gli anni che si era occupata di lui, doveva essersi sinceramente affezionata a quell’uomo.                                    
                                                                 
                                                                 II
Venezia, gennaio 1989
                                                                    
Quando Lefèvre finalmente arrivò a Venezia nella Calle Goldoni, rimase sbalordito per il fascino che l’ambiente circostante esercitava su di lui. Era la prima volta che si recava nella città lagunare che aveva scoperto grazie ai dipinti del Canaletto, il suo pittore preferito. Anche lui avrebbe voluto cercare uno scorcio ideale della laguna ed immaginare che proprio in quel punto, il grande artista si fosse fermato a prendere spunto: “Cogliere il momento preciso in cui la calda luce dorata del giorno, sapientemente distribuita attraverso i colori del pennello sulla tela, immortalava persone e cose in un alone di poesia.” 
E lui, Lefèvre, il Canaletto lo amava da sempre, sia per le sue straordinarie vedute così minuziose e ricche di particolari d’epoca, che per la magica atmosfera che da esse ne scaturiva.
A malincuore il poliziotto riuscì a staccare lo sguardo dalla visione del Canal Grande, ma sapeva che in quel giorno non gli era concesso fare il turista. A Venezia era venuto con uno scopo ben preciso, aveva un appuntamento per le undici con il conte Augusto Palladi degli Alberti, e bisognava che si affrettasse poiché era già in ritardo di un’ora buona.  
Quando finalmente arrivò all’indirizzo che cercava, batté il pesante batocchio alla grande porta laccata in nero, poi attese alcuni minuti prima di vederla aprire.      
L’uomo che gli stava davanti lo guardò con aria indifferente senza proferire parola, perciò fu Lefèvre a prendere l’iniziativa:
- Ho un appuntamento con il signor conte per questa mattina, potete informarlo che il Commissario Lefèvre è arrivato da Parigi?
L’uomo, un giovanotto sui venticinque anni dalla carnagione olivastra, con una folta capigliatura riccioluta nera, due volte più grande della sua testa, senza dare risposta si fece di lato e con la mano gli fece cenno di entrare. Poi, richiusa nuovamente la porta lo accompagnò sino allo studio del conte, intento a verificare una miniatura del ’600 con la lente d’ingrandimento.
- Prego, si accomodi commissario! In verità l’aspettavo più presto.
- La prego di scusarmi, signor conte. Ma quando mi sono ritrovato davanti il Canal Grande, non ho potuto fare a meno di fermarmi ad osservare quella splendida veduta, che mi ha ricordato il mio pittore preferito.
- Se allude al Canaletto, devo farle molti complimenti!
Poi cambiando discorso:
 - A cosa devo l’onore della sua visita? Sono forse in ritardo nel pagamento di qualche tassa per la mia proprietà in Normandia?
- Si tranquillizzi Monsieur le comte, non sono un agente delle tasse, che le confesso piacerebbe anche a me evitare di pagare, rispose Lefèvre con evidente difficoltà di linguaggio ed un marcato accento francese.
- Senta commissario, per facilitarle le cose consiglierei di proseguire il nostro dialogo nella sua lingua, se è d’accordo naturalmente.   
- Bontà sua signor conte, apprezzo molto la sua gentilezza. Purtroppo io sono più incline a risolvere i casi giudiziari che quelli linguistici, e lei non immagina quanto me ne duole. Desidero subito informarla che sono venuto da lei in via ufficiosa, come le dissi ieri per telefono, per chiederle alcune informazioni che potrebbero risultare utili a un’inchiesta in corso. Si tratta di un atroce assassinio avvenuto alcuni giorni fa a Parigi. Forse lei ne sarà già al corrente, visto che in queste ultime settimane giornali e televisione ne hanno sicuramente parlato anche all’estero.
- E’ probabile commissario, ma lei dovrebbe rinfrescarmi la memoria nel ricordarmi a quale delitto si riferisce. Purtroppo di delitti se ne commettono continuamente anche nel nostro paese, c’è veramente da perdere il conto.
- Ecco, io mi riferisco a quello avvenuto a Parigi il 6 gennaio scorso. Un certo André Vitali, antiquario di professione e italiano d’origine, dopo essere stato strangolato e rinchiuso in un sacco, è stato abbandonato in una strada principale della città, il boulevard Saint Michel…, 
- Non ne sono al corrente! l’interruppe drasticamente il conte. Mi trovavo a Roma già dal 24 di dicembre per festeggiare il Nuovo Anno e sono rientrato in Normandia il nove o il dieci di gennaio, non ricordo con precisione la data. Si figuri se in quei giorni di grande baldoria si ha voglia di sfogliare i giornali o di vedere la televisione! Ero ospite in casa di mio cugino il principe Alberto Ursini insieme ad una mia carissima amica parigina, la marchesa Lucile de Saint Just, che forse lei avrà sentito nominare. Mi dica piuttosto, come mai è venuto a fare una domanda simile proprio a me? Voglio sperare che non abbia fatto un sì lungo viaggio solo per raccontarmi la cronaca nera di Parigi? Devo confessare che la sua telefonata di ieri mi ha sorpreso non poco, e soprattutto lei mi è sembrato alquanto vago nel suo racconto. Se ho accettato di riceverla quest’oggi è perché domani parto, devo rientrare in Francia, ma per una mia naturale predisposizione sono una persona curiosa.  Pertanto abbia la compiacenza di spiegarmi il reale significato di questa sua visita.
- Non chiedo di meglio, signor conte.
Nell’agenda che abbiamo trovato sulla scrivania dell’antiquario Vitali, c’era annotato il suo numero di telefono, naturalmente non era il solo, ma in effetti non ve n’erano neppure tanti perciò, dopo avere interpellato tutti quelli di casa nostra volevamo ascoltare anche lei. Sono qui per sentire se non ci potesse fornire qualche utile  informazione che ci permetta di procedere più speditamente nella nostra inchiesta, perché suppongo che anche lei deve avere conosciuto il Vitali, non è così? chiese alquanto mellifluo Lefèvre.
- Certo che l’ho conosciuto! Io sono un appassionato collezionista d’arte e con l’antiquario Vitali ho concluso anche buoni affari, sempre come acquirente solvibile naturalmente, ma questo è successo in passato.
- Si ricorda per caso quando ha fatto l’ultimo acquisto?
- Oddio, sono passati diversi anni…, ma aspetti, forse posso essere molto più preciso.
Così dicendo, il conte si alzò dalla sua savonarola in pelle e si diresse verso la parete alle spalle di Lefèvre, staccò un quadro del ’600, un Ribera, e lesse la data posta nel retro.
- Vede, io ho l’abitudine di apporre sempre nel retro di ogni dipinto la data di acquisto, ciò per una ragione pratica, come può ben capire. Ecco, qui c’è segnato 8 giugno 1980, sono trascorsi ormai nove anni. Come scorre veloce il tempo! 
- Ed è stato questo l’ultimo acquisto che ha fatto da lui?
- Esatto! E dopo quella data non ce ne sono stati altri.       
- Ma come spiega che il suo indirizzo si trovasse ancora annotato nella rubrica del Vitali dopo tanti anni? chiese Lefèvre, continuando a mentire.
- Probabilmente l’antiquario l’avrà conservato ritenendomi un buon cliente, oppure…
- Oppure? incalzò il suo interlocutore.
- Oppure potrebbe averlo ricevuto da qualche amico comune, un altro collezionista d’arte ad esempio. Tra noi è prassi comune scambiarci favori reciproci. Chi può dirlo!
- Perciò lei mi assicura che l’ultima volta che lo vide fu nel 1980? ripeté il poliziotto, mentre annotava sul taccuino questa data. 
- Otto giugno 1980, proprio così, senza ombra di dubbio. Però, aggiunse, mi dispiace realmente che sia morto, quell’uomo aveva spesso opere interessanti da offrire.
- Lei non saprebbe dirmi con chi ancora il Vitali fosse in contatto?
- No! non lo so, e anche sapendolo non glielo direi. 
- Perché?
- Per il semplice motivo che noi collezionisti, parlo di quelli seri, abbiamo un’etica professionale che osserviamo sino in fondo. Pur rispettosi della legge, preferiamo non avere i poliziotti per lo mezzo, ci mettono a disagio. 
- Capisco signor conte, e la ringrazio per il tempo che mi ha accordato. Ora è giunto il momento di togliere il disturbo.
- Se non ha altre domande da farmi, non mi resta che salutarla commissario. A proposito, domattina presto rientro in Normandia, nel caso dovesse trovarsi da quelle parti mi venga a trovare a Fécamp, a Villa Venezia, Rue Honoré de Balzac 7, ho due bellissime vedute del Canaletto da farle vedere. Vedrà che non sprecherà il suo tempo.
- Bontà sua, e stia pur certo che se dovessi capitare da quelle parti, per niente al mondo perderei una simile opportunità.
Nel frattempo il conte aveva suonato il campanello ed il cameriere giunse dopo qualche minuto:
- Gabriel, accompagna il commissario. Ah! non faccia caso se Gabriel non risponde al suo saluto, non è per scortesia, il poveretto è muto dalla nascita. Lo presi al mio servizio quando aveva appena dieci anni e fra poco ne avrà 25. Faceva il pastore presso una famiglia di contadini macedoni che in cambio di una manciata di monete, me lo vendettero. A quel tempo avevo bisogno di un valletto, in tutta sincerità credo che non fosse nemmeno figlio loro perciò, sbarazzarsi di una bocca in più da sfamare in cambio di danaro era più che conveniente. E’ servizievole, ubbidiente e di costituzione forte, ma abituarlo a lavorare in una casa come questa, piena di opere pregiate, non è stata cosa semplice. Mi ci è voluta tanta pazienza e molta perseveranza, ma alla fine ho ottenuto un buon servo e un’ottima guardia del corpo allo stesso tempo. Non mi lascia mai solo! Posso dire d’avere fatto un ottimo affare con poca spesa.
Ora temo proprio di doverla congedare commissario, devo dare le ultime disposizioni per la partenza di domattina. Allora arrivederci a presto in terra di Francia.
Lefèvre ascoltò in silenzio l’uomo di nobile lignaggio, chiedendosi il motivo di tante spiegazioni sul domestico, che di volta in volta veniva apostrofato in maniera differente: valletto, servo, guardia del corpo, senza dimenticare le sue origini di pastore.
Quando Lefèvre si trovò in strada, iniziò a riflettere sulla conversazione appena terminata:
- Come mai il conte ha avuto un attimo di esitazione nel momento in cui gli ho detto che il suo indirizzo era segnato nell’agenda del Vitali? E perché si è dilungato tanto nel precisare la durata della sua sosta a Roma in compagnia di amici, elencando persino i nomi delle persone? Sembrava quasi stesse aspettando che gli chiedessi l’indirizzo degli  amici a conferma di quanto prima dichiarato. Ho l’impressione di dovermi trattenere qualche giorno in più a Venezia e chiarire qualche piccola ombra che si allunga sulla sua persona. Sarà opportuno però attendere sino a domani, dopo la sua partenza.
Il giorno successivo Lefèvre si trovò nuovamente davanti al grande portone nero del palazzo, batté il batocchio ed attese. Passarono diversi minuti, poi riprovò nuovamente a bussare, ma neppure questa volta il portone si aprì e mentre attendeva, una anziana donna che si trovava a passare lì davanti, si fermò e disse in un rapido parlare veneziano:
- El Sior conte el zé partio stamatina presto col servo, chi o sa quando quel portone se apre de novo.
La notizia certa che il nobile patrizio fosse già partito, mise di buon umore il poliziotto francese il quale dette subito inizio alle sue ricerche. Per prima cosa si recò a parlare con il parroco della chiesa più vicina alla casa, per sapere se conosceva il conte Augusto Palladi degli Alberti e se fosse stato battezzato in quella chiesa.
- Oh! sior mio, come la pol pensar che nobili signoroni come quei, i vegna in una ciesa poareta come questa? De sicuro i genitori i se gà rivolto al parroco dei Frari, se non proprio al patriarca de San Marco per batezar i putei. I putei, noialtri intendemo dir i fioi, i figli, per intenderci”
- Mi scusi padre, interruppe Lefevre, perché ha detto i figli? Il conte non è figlio unico?
- Eh, no! benedeto fio. El conte gaveva un fradeo chel zè morto da tanto tempo in ospeal de una bruta malatia, poareto.
- Non si ricorda da quanto tempo?
- No! proprio non me lo ricordo, cosa la vole, la vecchiaia zè una bruta strega, no a te assa gnanca respirar, figuremose la memoria. Però se ghe interesa, el pol sempre domandar informasion in Comune.
- Ricorda come si chiamava il gemello?
- Queo sì che me o ricordo, el se ciamava Alfonso. Adeso go mi na domanda da farghe, signor mio: perché ghe interesa tuta sta storia sui conti?
- Perché dovevo parlare con il conte Augusto, ma mi è stato detto che è partito questa mattina. 
- Queo zè sempre in viaggio, sempre a zonzo, zè difisie da incontrarlo.
Approfittando di questa piccola digressione, Lefèvre fece scivolare nella cassetta delle offerte alcune monete metalliche che produssero un rumore sordo sul fondo di legno, segno che era completamente vuota.
- Grazie por a so generosità, Iddio te ne renderà merito.
Poi si allontanò verso l’altare, mentre Lefèvre guadagnava l’uscita in direzione opposta. 
- Dunque, pensò il poliziotto, il conte aveva un fratello ma non ne ha fatto cenno, forse perché non c’era alcun motivo per ricordarlo. Mi sembra però una buona ragione per saperne qualcosa di più, specialmente riguardo la data del decesso. E’un’informazione che proverò a chiedere in Comune.
 L’impiegato comunale non ebbe difficoltà a trovare il certificato di morte del conte Alfonso Palladi degli Alberti, morto il 17 Maggio 1977 nell’ospedale civile, per essere poi sepolto a Padova.
Nell’udire quella data, improvvisamente si aprì nella mente del poliziotto il suo archivio personale, ricordandogli l’omicidio di Marsiglia avvenuto esattamente nella stessa data. Una coincidenza? Tutto è possibile! Però persino il giorno ed il mese sono gli stessi.  
- Che strano, disse, come mai lo hanno seppellito a Padova? 
- Certamente perché i familiari avevano paura che le “pantegane” di Venezia se lo mangiassero, disse l’impiegato. Lei è straniero e forse non sa neppure cosa sono le pantegane!
- E’ vero, non lo so!
- Sono ratti grossi quasi come dei castori, ma pericolosissimi. Un morso di una bestia di quella e l’è bel’ che accoppato, sono sempre affamati. Si vedono di giorno come di notte e sono velocissimi nuotatori. Per questo i morti vengono seppelliti in altre città, naturalmente chi se lo può permettere.
Dallo stesso impiegato comunale seppe pure il nome dell’ospedale dove il conte era morto e vi si recò subito. Durante il colloquio con la segretaria di direzione ospedaliera  mentì, disse che era un vecchio amico del conte Alfonso Palladi, e si era tanto rammaricato di non avere ricevuto per tempo la notizia della sua fine prematura. Avrebbe voluto sapere di cosa era morto l’amico, e quando esattamente era avvenuto il decesso. La donna fece inizialmente qualche obiezione sulla causa del decesso, poi acconsentì a rispondere a tutte le richieste di Lefèvre.  
Il conte era morto effettivamente il 17 Maggio del 1977, per cirrosi epatica fulminante. L’attestazione di decesso era stata era firmata e timbrata dal primario dell’ospedale.
- Tutto sembra coincidere, si disse Lefèvre, tutto sembra regolare, eppure voglio vedere la tomba del conte.
Da Venezia a Padova il viaggio è breve e quando il commissario vi arrivò, prese un tassì e chiese all’autista di portarlo al cimitero.
Padova era la seconda città italiana che visitava velocemente nel giro di alcuni giorni, non c’era mai stato prima e il tassista ne approfittò per far durare il viaggio il più a lungo possibile. Lefèvre non se la prese a male, sapeva benissimo che quella è una consuetudine di molti tassisti, ma convenne che il prezzo che avrebbe pagato gli permetteva di vedere qualcosa di quella città in poco tempo. Infatti l’autista si dette molto da fare nel fornire da vero esperto, informazioni storiche sui monumenti e le piazze che man mano incrociavano, tenendo a precisare che le sue notizie non erano riportate in nessuna guida turistica. Quando finalmente il taxi si fermò davanti al cimitero, il conducente chiese se doveva aspettare per ricondurlo in città e, nel caso avesse bisogno di un buon albergo tranquillo, lui gli raccomandava senza indugio quello del nipote che certamente gli avrebbe fatto il migliore prezzo della città. Poteva interessargli?
- No, grazie! penso che questa notte alloggerò nel cimitero, disse sarcastico Lefèvre.
L’autista ascoltò, poi di rimando:
- Proverò a ripassare domattina, nel caso che l’incontro notturno con qualche anima vagabonda la convincesse a cambiare idea. Qui di notte girano solo anime cattive.
All’ingresso del cimitero, Lefèvre si rivolse all’uomo in divisa scura fermo davanti al cancello:
- Saprebbe indicarmi dove si trova la tomba del conte Alfonso Palladi…
- Sicuro, rispose il guardiano senza esitare, sono proprio io che ho l’incarico di occuparmene. Lei è un parente?
- No! solo un amico che ha ricevuto in ritardo la notizia della sua morte. Io non vivo in Italia.
- Questo l’ho capito dal suo accento, mi dispiace che non sia stato informato perché quello fu un gran bel funerale, poca gente e molti fiori. I più costosi mai visti qui dentro. Le posso garantire che è stato veramente il più importante da vent’anni a questa parte, perché è da vent’anni che io presto servizio in questo cimitero.
Durante il percorso verso la tomba del conte, il custode disse di chiamarsi Santi, fu estremamente loquace e rispose all’accorto interrogatorio di Lefèvre fornendo utili informazioni. Ammise che tutti i semestri riceveva un compenso per mantenere in perfetto ordine la tomba, purché si attenesse scrupolosamente alle direttive che gli venivano date, cioè: non fare mai mancare i fiori sulla tomba, sostituirli almeno una volta alla settimana, lucidare bene la targa d’ottone con l’epitaffio ed inoltre, provvedere affinché il lume votivo rimanesse eternamente acceso.
- Mi dica Santi, quando è stata l’ultima volta che ha ricevuto il danaro? E chi la paga?
- Il ventotto del mese scorso, prima della fine dell’anno, si è presentata la solita persona per il pagamento. Io cerco sempre di farmi trovare presente il giorno della scadenza semestrale, badando che la tomba sia perfettamente in ordine. Cosa vuole che le dica, lo stipendio non basta mai e di mance se ne vedono poche, perciò un’entrata fissa raddrizza  un poco le cose. Qualche volta è venuto in visita anche un altro uomo, un signore molto distinto, forse per controllare se eseguo le disposizioni ricevute, io però rispetto le consegne e richiami non ne ho mai avuti. Lavoro con coscienza e quando ho un buon cliente tra le mani, mi creda, faccio di tutto per non farmelo scappare.
- E’ giusto guadagnarsi la vita onestamente, aggiunse Lefèvre mentre passava un biglietto di banca tra le dita del Santi che, con la stessa rapidità di un prestigiatore lo fece sparire seduta stante.
- La persona che è venuta a dicembre era forse un giovanotto alto, magro, con una folta capigliatura nera, molto riccia?
- Sì! Proprio lui, ed è lo stesso che viene sempre a portarmi i soldi in una busta gialla, dopo aver controllato se la tomba è in ordine. Poi se ne va senza proferire parola e nemmeno salutare. Del suo saluto io me ne frego, in confidenza però, ci resto egualmente male. Vorrei almeno che esprimesse un giudizio, anche se negativo lo preferirei all’insulto del silenzio.
- Santi lei è troppo suscettibile, cosa strana per una persona che lavora qui dentro. Ma mi dica, oltre a questo giovane è mai venuta qualche signora a pregare sulla tomba del conte?
- Mai! Non ho mai visto né donne giovani, né vecchie. Prima del giovanotto veniva, di tanto in tanto, un uomo con barba, occhiali scuri e cappello, d’inverno come pure d’estate. Quella persona distinta di cui le ho già parlato, che credo appartenesse alla famiglia. Non tutti i nobili sono distinti, ma quello lo era per davvero, ed io ho buon fiuto. So riconoscere le persone alla prima occhiata!
- Bene Santi, la ringrazio per la sua compagnia e seguiti ad accudire scrupolosamente la tomba, se non vuole perdere un compenso sicuro.
- Di questo non dubiti, ci tengo tanto al mio pane semestrale.  
Poi entrambi si avviarono verso il viottolo alberato che conduceva all’uscita, dove Lefèvre gli strinse la mano e si accinse ad uscire.
- Arrivederci Signor Commissario, faccia buon viaggio.
Il poliziotto si arrestò di colpo, si voltò lentamente e sorridente rispose:
- Voi italiani avete il dono dell’intuizione Santi, capacità preclusa a molti, me compreso, anche se ho avuto una madre italiana.
Il Santi, alzando entrambe le mani a mezz’aria, come usa fare il prete all’altare, replicò:
- Cosa vuole, è la conseguenza di chi è costretto a condividere la propria esistenza tra i morti e i vivi. I primi ci fanno riflettere, i secondi pensare, ma il Santi si fida solo dei primi. Arrivederci signor Commissario, faccia buon rientro in patria e nel caso avesse ancora bisogno di me…beh! Ora sa che vivo in mezzo ai morti.


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